... laurea ad honorem della Sapienza
Il 1 Aprile 2014 è morto a Parigi Jacques Le Goff. La notizia, letta su Le Monde, mi ha molto colpito, emozionato. Avrei voluto avere vicino a me qualche amico con il quale esprimere il mio dolore e la mia nostalgia.Ma l'isolamento in cui mi trovo in queto momento ha schiacciato dentro di me immagine del passato importanti per la mia vita. Di colpo questa situazione mi è apparsa intollerabile, in un certo senso troppo omogenea alla morte di Le Goff. Intollerabile, perché l'immagine dello storico è rimasta in me, dopo tanti anni dalla prima volta che lo ascoltai, come un'immagine di grande vitalità. Ironica a tratti, ma sempre vitale.
Feci la sua conoscenza in anni davvero lontani, nei primi anni '70. Ero allora assistente ordinario di Manlio Simonetti, titolare della Cattedra di Storia del Cristianesimo alla Facoltà di Lettere della Sapienza. Grazie a Simonetti potei godere di una grande libertà di movimento per condurre le ricerche sul Socialimo utopico e sulla religiosità popolare della Rivoluzione francese in cui ero allora impegnato. Vivevo alla Maison d'Italie, passando tutto il mio tempo tra archivi e biblioteche, ma, anche, all'Ecole pratique, seguendo i seminari che più mi interessavano, pur essendo lontani dal corso di Sociologia delle religioni a cui ero ufficialmente iscritto.
Erano frequentazioni sporadiche, certo, ma libere (non avevo alcuna intenzione di addottorarmi, avvevo già avviato a Roma la mia carriera accademica), stimolate dalle mie letture e dall'immagine che il professore lasciava in me. Debbo dire che le lezioni di Le Goff furono decisive per il mio ultimo e definitivo passaggio dalle curiosità iniziale della mia formazione universitaria (Corso di Laurea in filologia classica) a quelle per la storia. Furono quelle lezioni a confermare in modo definitivo il mio amore per la storia delle mentalità, storia globale, senza limiti tematici o temporali, che avevo conosciuto attravero i libri di Febvre e Bloch.
Quasi 40 anni dopo, stimolato dalla mia pungente percezione della "crisi della storia" che imperversava sulla cultura europea, proposi alla mia Università, con l'appoggio di altro collega, che venisse offerta a Jacques Le Goff la Laurea honoris causa. Fui incaricato di scrivere l'Elogium per la cerimonia accademica che si svolse nell'Aula magna l'11 ottobre 2000.
Sono felice di ripubblicarla qui, insieme alla Lectio di Le Goff, come inaugurazione del blog che da tempo avrei voluto aprire per stimolare a un dibattito sul significato della "crisi della storia" sulla cultura egemonica che da tempo sta conducendo alla fine della democrazia, di un sogno "liberale" nato almeno dalla Rivoluzione francese, e di un sogno "sociale", molto più antico, e a mio avviso ancora inconsciamente portatore del sogno lanciato nella storia dalla comunità cristiana primitiva...
Dalla rivista "Dimensioni e problemi della ricerca storica" (anno 2000, n.2) del Dipartimento di Storia, Cutlure, Religioni dell'Università La Sapienza di Roma
- Elogium di Jacques Le Goff, di Francesco Pitocco
- L'histoire aujourd'hui, lectio di Jacques Le Goff
***
Francesco Pitocco
Elogium
Quando proposi alla mia Facoltà di
conferire la laurea al Prof. Le Goff,
non pensavo certamente che sarebbe toccato a me l’onore, e l’onere, di farne l’elogio. Nelle mie intenzioni altro
collega avrebbe dovuto scrivere e leggere l’elogio del grande medievista. E
certo l’avrebbe fatto meglio di quanto possa farlo io: io che non sono un
medievista. Solo alcune fortuite circostanze mi hanno posto nella condizione di
dover leggere oggi queste poche pagine, qui, in questa aula magna.
Ho ceduto a questa necessità sostenuto dalla mia profonda convinzione che il contributo di Le Goff alla storia vada ben al di là del suo specifico campo di lavoro, il Medio Evo. Del resto nella mia proposta, accanto alla volontà di rendere omaggio a un grande studioso, era anche presente il desiderio, quasi a consuntivo di un secolo, di rendere omaggio a un’intera tradizione storiografica: a quella tradizione annalistica dei Febvre, dei Bloch, dei Braudel, della quale Le Goff è oggi il più eminente rappresentante. Grazie a quella tradizione il Novecento, tra le tante definizioni che gli sono state assegnate, potrebbe ben avere, anche, quella di “secolo della storia”.
Ho ceduto a questa necessità sostenuto dalla mia profonda convinzione che il contributo di Le Goff alla storia vada ben al di là del suo specifico campo di lavoro, il Medio Evo. Del resto nella mia proposta, accanto alla volontà di rendere omaggio a un grande studioso, era anche presente il desiderio, quasi a consuntivo di un secolo, di rendere omaggio a un’intera tradizione storiografica: a quella tradizione annalistica dei Febvre, dei Bloch, dei Braudel, della quale Le Goff è oggi il più eminente rappresentante. Grazie a quella tradizione il Novecento, tra le tante definizioni che gli sono state assegnate, potrebbe ben avere, anche, quella di “secolo della storia”.
E’ infatti nel corso del Novecento che la
storia ha pugnacemente cercato la via per collocarsi nel novero delle
“scienze”, senza timidezze e sensi di inferiorità, elaborando strumenti di
analisi originali e diversi da quelli delle altre scienze, certamente, ma non
per questo meno rigorosi. Ed è nel corso del Novecento che alla storia sono state
riconosciute funzioni essenziali alla vita sociale, dalla formazione delle
identità collettive, alla formazione intellettuale e politica delle classi
dirigenti. Direi di più: nel corso del Novecento la storia ha contribuito non
poco alla costruzione della società democratica, rintracciando nel tempo, al
dilà dei “grandi personaggi”, e restituendola alla coscienza della
contemporaneità, la presenza oscura ma attiva degli uomini anonimi, la
pressione opaca e forte delle “masse”; vi ha contribuito valorizzando, al dilà
dei “grandi avvenimenti”, la dimensione quotidiana e collettiva della vita
sociale; vi ha contribuito cercando di restituire “dignità storica”, coscienza
storica, sulla scia del grande, grandissimo Michelet, a quel “popolo” che dalla
storia era sempre rimasto escluso, e che della società democratica è, o
dovrebbe essere, il “sovrano”.
*
Di questa storia, fin dagli inizi della
sua carriera, Le Goff è stato grande protagonista. Grande per i risultati delle
sue ricerche, e grande per la sua straordinaria capacità di scrivere in modo
comprensibile a tutti, riuscendo a divulgare i livelli alti dell’elaborazione
scientifica, valicando ampiamente l’orizzonte della sua specializzazione,
raggiungendo lettori lontani, imprevedibili: specialisti, lettori comuni…persino
bambini.
Storici e “lettori” di storia degli ultimi decenni del secolo, debbono in gran parte a lui, alla straordinaria capacità di penetrazione della sua scrittura, la definitiva messa in mora della concezione tradizionale del Medio Evo: una concezione per così dire, “illuministica”, che vedeva in quest’epoca un’età oscura, e addirittura oscurantista: età vuota, età di mezzo, buco nero nella faticosa marcia del progresso e della civiltà. Questa immagine era già stata ampiamente smentita, certo, da decenni e decenni di lavoro scientifico, ma dubito che essa fosse davvero uscita dall’orizzonte della cultura diffusa, e persino dall’orizzonte della cultura cosiddetta “culta”.
Tuttavia sarebbe assai paradossale se al dilà delle capacità divulgative, sempre alte ed efficacissime, e che costituiscono un tratto peculiare del suo modo di concepire ed esercitare il “mestiere di storico”, noi non sottolineassimo, qui, soprattutto, l’innovazione reale e radicale dell’immagine complessiva del Medio Evo che Le Goff ha messo in campo. Un’immagine dilatata per i suoi tempi e per i suoi problemi.
Storici e “lettori” di storia degli ultimi decenni del secolo, debbono in gran parte a lui, alla straordinaria capacità di penetrazione della sua scrittura, la definitiva messa in mora della concezione tradizionale del Medio Evo: una concezione per così dire, “illuministica”, che vedeva in quest’epoca un’età oscura, e addirittura oscurantista: età vuota, età di mezzo, buco nero nella faticosa marcia del progresso e della civiltà. Questa immagine era già stata ampiamente smentita, certo, da decenni e decenni di lavoro scientifico, ma dubito che essa fosse davvero uscita dall’orizzonte della cultura diffusa, e persino dall’orizzonte della cultura cosiddetta “culta”.
Tuttavia sarebbe assai paradossale se al dilà delle capacità divulgative, sempre alte ed efficacissime, e che costituiscono un tratto peculiare del suo modo di concepire ed esercitare il “mestiere di storico”, noi non sottolineassimo, qui, soprattutto, l’innovazione reale e radicale dell’immagine complessiva del Medio Evo che Le Goff ha messo in campo. Un’immagine dilatata per i suoi tempi e per i suoi problemi.
Il Medio Evo di Le Goff è veramente un
“altro” Medio Evo, come egli ama definirlo; un «lungo Medio Evo che è durato
dal II o III secolo della nostra era per morire lentamente sotto i colpi della
rivoluzione industriale - delle rivoluzioni industriali- tra il XIX secolo e
inostri giorni». E’ un Medio Evo certamente “nuovo”. E non solo perché
valorizza a pieno, lussuosamente, la nozione di lunga durata propugnata e divulgata da Braudel fino a imporla al
lessico comune, quasi fosse una moda. E’ una terra nuova che egli ci invita a
esplorare e conoscere. Una terra che egli ausculta con sensibilità da
rabdomante, su cui posa un orecchio attento, acuto, pronto a sentir nascere e
crescere, in lontananza, le radici della civiltà moderna.
Non a caso i suoi problemi storici si
incarnano, già agli inizi del suo lavoro, in figure sociali che egli vede
protagoniste del suo Medio Evo, ma
che lo sono ancora della società moderna: il mercante e l’intellettuale.
Sono loro che ai suoi occhi aprono una fenditura, destinata nel tempo a
diventare sempre più profonda, nelle vita sociale ancora orientata e dominata
da una particolare tradizione della Chiesa, statica, e persino arcaica. Sono
loro le figure prometeiche che rubano al Dio il tempo e il lavoro: un
tempo mutevole e flessibile, non più rigidamente scandito dal campanile e dalla
preghiera, e un lavoro “riabilitato”, risarcito della primordiale condanna
divina. Sono gli annunci della “libertà moderna” che Le Goff sente squillare da
lontano.
Un Medio Evo “creatore”, dunque, un tempo
«che ha creato la città, la nazione, lo Stato», come Le Goff sottolinea. Un
medio Evo, come si può intuire, visto con gli occhi d’un homme de ville, di un
uomo di città, come egli si definisce, e di città vissute come porti di mare,
il quale, per altro, sia detto tra parentesi, non sembra amare di tutto cuore,
con tutta spontaneità, i “rurali”, la loro campagna e i loro problemi.
*
Debbo pregarvi, promettendo di non cedere
alle tentazioni dell’autobiografia, di consentirmi di dire qualcosa su come la
mia generazione è venuta a contatto con la storiografia delle Annales, e dunque con Le Goff.
Io penso che la penetrazione delle Annales in Italia si sia realizzata, il più delle volte, non secondo ordinate discendenze scolastiche, ma per vie traverse e imprevedibili, non dissimili, forse, da quella che io stesso mi son trovato a seguire. Ne è conferma il fatto che, nella mia generazione, i più attenti alle sue soggestioni, mi sembrano provenire dalle fila della storia religiosa, nel cui ambito io mi son formato, molto più di quanto non provengano dalla storia economica o dalla storia politica, o altra storia ancora. Del resto, per i miei coetanei, scoprire quella storiografia, non in quanto luogo di lavori singolarmente interessanti, ma in quanto portatrice di un nuovo “paradigma storiografico”, non era impresa facile. Bisognava perforare uno spesso muro di pregiudizi, un’alta barriera di ripulse, che la più ampia parte della generazione precedente aveva innalzato con cura.
Vi erano state certo eccezioni. Ma anche tra i pochi “maestri” che avevano percepito la specifica portata storiografica delle Annales, i più vi si erano opposti frontalmente. Chi non ricorda il terribile giudizio di Delio Cantimori sulla Mediterranée di Braudel (e parlo di Cantimori per parlare di uno storico che per le sue “eresie” e le sue “utopie” io ho seguito sempre con grande attenzione).
Nel 1949 ne aveva sconsigliata la pubblicazione a Einaudi con queste parole: «si tratta ormai di una geo-socio-storia, che associa in una rappresentazione tanto brillante e suggestiva quanto evasiva, tanto piccante quanto indigesta, i motivi della geopolitica, delle sociologie pseudo storicistiche tedesche (...). Tutto è “significativo” in questo sfavillante Mediterraneo: ma in questo luccichio di significazioni e di evocazioni si rimane abbarbagliati: non si capisce più niente. Non è realismo storiografico; è bruto naturalismo».
E non si trattava del giudizio estemporaneo su un libro particolare e non amato. Era il giudizio su una “politica culturale”, sospettoso e avverso a tutto il “gruppo” delle Annales: «non ritengo utile, diceva Cantimori, anzi dannoso, diffondere, per mezzo della traduzione di un’opera così ben scritta (...) il metodo, o il sistema, o il regime, o l’arte, o la retorica, chiamateli come credete, del gruppo di L. Febvre, Morazé, Braudel, ecc. . ecc.».
Io penso che la penetrazione delle Annales in Italia si sia realizzata, il più delle volte, non secondo ordinate discendenze scolastiche, ma per vie traverse e imprevedibili, non dissimili, forse, da quella che io stesso mi son trovato a seguire. Ne è conferma il fatto che, nella mia generazione, i più attenti alle sue soggestioni, mi sembrano provenire dalle fila della storia religiosa, nel cui ambito io mi son formato, molto più di quanto non provengano dalla storia economica o dalla storia politica, o altra storia ancora. Del resto, per i miei coetanei, scoprire quella storiografia, non in quanto luogo di lavori singolarmente interessanti, ma in quanto portatrice di un nuovo “paradigma storiografico”, non era impresa facile. Bisognava perforare uno spesso muro di pregiudizi, un’alta barriera di ripulse, che la più ampia parte della generazione precedente aveva innalzato con cura.
Vi erano state certo eccezioni. Ma anche tra i pochi “maestri” che avevano percepito la specifica portata storiografica delle Annales, i più vi si erano opposti frontalmente. Chi non ricorda il terribile giudizio di Delio Cantimori sulla Mediterranée di Braudel (e parlo di Cantimori per parlare di uno storico che per le sue “eresie” e le sue “utopie” io ho seguito sempre con grande attenzione).
Nel 1949 ne aveva sconsigliata la pubblicazione a Einaudi con queste parole: «si tratta ormai di una geo-socio-storia, che associa in una rappresentazione tanto brillante e suggestiva quanto evasiva, tanto piccante quanto indigesta, i motivi della geopolitica, delle sociologie pseudo storicistiche tedesche (...). Tutto è “significativo” in questo sfavillante Mediterraneo: ma in questo luccichio di significazioni e di evocazioni si rimane abbarbagliati: non si capisce più niente. Non è realismo storiografico; è bruto naturalismo».
E non si trattava del giudizio estemporaneo su un libro particolare e non amato. Era il giudizio su una “politica culturale”, sospettoso e avverso a tutto il “gruppo” delle Annales: «non ritengo utile, diceva Cantimori, anzi dannoso, diffondere, per mezzo della traduzione di un’opera così ben scritta (...) il metodo, o il sistema, o il regime, o l’arte, o la retorica, chiamateli come credete, del gruppo di L. Febvre, Morazé, Braudel, ecc. . ecc.».
Del resto già nel 1945, Cantimori,
recensendone il libro su Margherita di Navarra, aveva accusato Febvre di quello che chiamava «decadentismo
storiografico, derivato forse da stanchezza o forse da un eccessivo distacco
dalla considerazione concreta e realistica dei fenomeni storici». Un giudizio
aspro, anche quello, che passava dai dubbi sulla “importanza d’una storia
psicologica” che gli appariva incapace di produrre vere “ricerche storiche”,
all’ironia sulla scrittura “letteraria”, sul gusto per «le descrizioni e le
immagini e le allusioni e i riferimenti analogici e le ripetizioni evocative»,
capace solo di produrre “tautologie” invece del rigoroso “definire” e
“giudicare” che è proprio della storia. Critiche aspre, che miravano a colpire
un modello di storia che agli occhi di Cantimori si smarriva in divagazioni
sulle “intenzioni e l’intimo del cuore”, come diceva, sulla “mentalità” e
sull’“ambiente”, invece di puntare a “ciò che per lo storico è essenziale”:
“l’importanza oggettiva” delle “azioni” degli uomini.
Ma bisogna esser giusti! Quel Cantimori che tanto duramente aveva respinto le Annales e la loro “storia psicologica”, la loro “retorica”, la loro “scrittura letteraria”, fu poi, per noi, un tramite importante: mentre facevo le mie prime letture di Le Goff usciva per Einaudi un’imponente antologia di articoli di Febvre, Studi su Riforma e Rinascimento, tradotta da Corrado Vivanti, ma introdotta proprio da Cantimori. Si apriva così quella che sarebbe diventata, nel giro di pochi anni, la felice stagione italiana delle Annales e dei suoi storici, un poco per merito del mondo universitario, molto per merito di due editori, Einaudi e Laterza, e molto, forse, anche per merito di una generazione di giornalisti assai “curiosi di storia”, purtroppo ormai “in pensione”, e che non sembrano aver lasciato eredi.
Di colpo i titoli “evocativi”, “sfavillanti” della storiografia delle Annales, come avrebbe potuto definirli il Cantimori degli anni ’40, divennero di moda, e furono venduti a miglia e migliaia di copie. Il “quotidiano”, l’“immaginario collettivo”, il “meraviglioso”, l’“altro Medioevo” o il “Medioevo lungo”, le formule predilette di Le Goff, trovarono di fronte a sé la strada del grande pubblico, spianata dai giornali, dalle radio, persino dal cinema. Erano certo formule “vaghe” e “ambigue”, come egli stesso definiva la storia delle mentalità, regina di quel trionfo. Formule che dicevano il “non so che della storia” e che, malgrado il loro successo, continuarono, e a volte continuano ancora, a suscitare la perplessità e l’irritazione di parte non piccola della storiografia universitaria. Ma che altro deve fare la ricerca storica se non studiare il “non so che”? ciò che non si conosce? Che altro, se non frequentare territori nuovi e ignoti? E con tutti i mezzi e gli strumenti possibili, con l’aiuto della psicologia e della sociologia, dell’economia e della statistica... E ancora: che altro deve fare se non comunicare i risultati del suo lavoro in modo “accattivante”, anche con le astuzie della “retorica” e il fascino della “scrittura letteraria”, pur di ampliare l’orizzonte culturale dei suoi lettori?
*
Che con questi maestri fosse difficile arrivare
alle Annales è cosa intuitiva. Ma di
colpo negli anni ’60 l’università italiana si aprì, sia pure parzialmente, alle
scienze sociali, alla sociologia e all’antropologia soprattutto, consentendo
così, alla generazione che si formava allora, l’apertura di un sentiero verso
una storiografia che sul rapporto con le scienze sociali aveva da sempre
fondato la sua originalità e la sua fecondità.Ma bisogna esser giusti! Quel Cantimori che tanto duramente aveva respinto le Annales e la loro “storia psicologica”, la loro “retorica”, la loro “scrittura letteraria”, fu poi, per noi, un tramite importante: mentre facevo le mie prime letture di Le Goff usciva per Einaudi un’imponente antologia di articoli di Febvre, Studi su Riforma e Rinascimento, tradotta da Corrado Vivanti, ma introdotta proprio da Cantimori. Si apriva così quella che sarebbe diventata, nel giro di pochi anni, la felice stagione italiana delle Annales e dei suoi storici, un poco per merito del mondo universitario, molto per merito di due editori, Einaudi e Laterza, e molto, forse, anche per merito di una generazione di giornalisti assai “curiosi di storia”, purtroppo ormai “in pensione”, e che non sembrano aver lasciato eredi.
Di colpo i titoli “evocativi”, “sfavillanti” della storiografia delle Annales, come avrebbe potuto definirli il Cantimori degli anni ’40, divennero di moda, e furono venduti a miglia e migliaia di copie. Il “quotidiano”, l’“immaginario collettivo”, il “meraviglioso”, l’“altro Medioevo” o il “Medioevo lungo”, le formule predilette di Le Goff, trovarono di fronte a sé la strada del grande pubblico, spianata dai giornali, dalle radio, persino dal cinema. Erano certo formule “vaghe” e “ambigue”, come egli stesso definiva la storia delle mentalità, regina di quel trionfo. Formule che dicevano il “non so che della storia” e che, malgrado il loro successo, continuarono, e a volte continuano ancora, a suscitare la perplessità e l’irritazione di parte non piccola della storiografia universitaria. Ma che altro deve fare la ricerca storica se non studiare il “non so che”? ciò che non si conosce? Che altro, se non frequentare territori nuovi e ignoti? E con tutti i mezzi e gli strumenti possibili, con l’aiuto della psicologia e della sociologia, dell’economia e della statistica... E ancora: che altro deve fare se non comunicare i risultati del suo lavoro in modo “accattivante”, anche con le astuzie della “retorica” e il fascino della “scrittura letteraria”, pur di ampliare l’orizzonte culturale dei suoi lettori?
Ricordo una pagina nella quale, ancora,
Cantimori poneva una distinzione radicale tra lo storico e lo studioso di
storia. Egli si poneva, con modestia, e con orgoglio, tra gli studiosi di storia, tra coloro che
interpretano questo mestiere di storico come occasione per svolgere con estremo
rigore, con fatica e umiltà, un lavoro fatto di onestà intellettuale, di lucido
esercizio della ragione, senza nulla concedere alla fascinazione della
fantasia, all’immaginazione, all’“arte”
della scrittura.
Ora si da il caso che gli storici delle Annales, da Bloch a Febvre, da Braudel a Le Goff, siano tutti studiosi di storia, certo, ma anche scrittori di storia, e scrittori di talento. Per fare il verso a quei sostenitori del Linguistic Turn, i quali da mezzo secolo tentano di punzecchiare gli storici, li direi anch’io volentieri produttori di “discorsi”.
Io non so cosa il prof. Le Goff pensi di questa polemica, ormai annosa e anche un po’ noiosa, che senza tener conto delle procedure e delle operazioni specifiche della ricerca, del “fare storia”, tende a ridurre la storia al suo linguaggio, al suo “discorso”, al pari di un romanzo o di qualsiasi altra opera di letteratura, pretendendo per questa via di negarne ogni capacità di farsi scienza, di conoscere qualcosa di “oggettivo”, che sia esterno a se stessa e al suo linguaggio. Non so cosa egli ne pensi, ma oso credere che un poco ne sorrida, sornionamente. In realtà egli possiede una coscienza chiarissima della complesistà del processo di produzione del “discorso” storico, sia pure assunto in quell’ultimo stadio del “testo” comunicato al lettore, in cui solo riescono a coglierlo i fautori del Linguistic Turn.
Ora si da il caso che gli storici delle Annales, da Bloch a Febvre, da Braudel a Le Goff, siano tutti studiosi di storia, certo, ma anche scrittori di storia, e scrittori di talento. Per fare il verso a quei sostenitori del Linguistic Turn, i quali da mezzo secolo tentano di punzecchiare gli storici, li direi anch’io volentieri produttori di “discorsi”.
Io non so cosa il prof. Le Goff pensi di questa polemica, ormai annosa e anche un po’ noiosa, che senza tener conto delle procedure e delle operazioni specifiche della ricerca, del “fare storia”, tende a ridurre la storia al suo linguaggio, al suo “discorso”, al pari di un romanzo o di qualsiasi altra opera di letteratura, pretendendo per questa via di negarne ogni capacità di farsi scienza, di conoscere qualcosa di “oggettivo”, che sia esterno a se stessa e al suo linguaggio. Non so cosa egli ne pensi, ma oso credere che un poco ne sorrida, sornionamente. In realtà egli possiede una coscienza chiarissima della complesistà del processo di produzione del “discorso” storico, sia pure assunto in quell’ultimo stadio del “testo” comunicato al lettore, in cui solo riescono a coglierlo i fautori del Linguistic Turn.
*
In
un’intervista concessa qualche anno fa, assai bella e importante,
significativamente pubblicata con il titolo Una
vita per la storia, Le Goff invitava il suo intervistatore a tener conto
che per lo storico la storia non è solo quell’asettico e ascetico lavoro
scientifico che immaginava certo positivismo di fine Ottocento. La storia è,
per lui, la sua stessa vita, ed è
dunque, se posso prolungare quel pensiero, un discorso teso anche alla sua vita, sulla sua vita, non mirato solo alla classificazione di “cose” esterne,
passate e oggettive! E’ un libro, quell’intervista, che pur nella sua forma
discorsiva, parlando apparentemente, come casualmente, di questo e di quello,
racchiude una miniera di osservazioni luminose sul mestiere dello storico
interpretato da Le Goff.
Tra le altre
cose Le Goff, amante di cinema, amico di cineasti, e forse un poco anche “uomo
di cinema”, vi ricorda la sua esperienza di consulente della trasposizione
cinematografica del Nome della rosa
di Umberto Eco. E ha così modo di richiamare l’attenzione dell’intervistatore
sulle condizioni di produzione del
discorso cinematografico, da un lato, e sulle sue condizioni di ricezione, dall’altro. Distinzione interessante, forse
anche un po’ naïve, come egli stesso
dice, ma capace, di colpo, di gettare luce sulla produzione del suo
“discorso” storico e sul suo
personale lavoro per una efficace ricezione
di quel discorso.
Le Goff si
dice affascinato dal fatto che i piani,
le seguenze del film proiettato in
sala, “non si trovano generalmente nell’ordine” con il quale sono stati girati,
e che “l’opera si fa soprattutto al montaggio”. Il montage modifica l’ordine del tournage.
Questa manipolazione, egli dice, contribuisce non poco a rendere
“appassionante” la “creazione cinematografia”. E conclude: «un grande cineasta
è l’equivalente di un grande poeta, di un grande romanziere…il cinema è davvero
un’arte à part entière».
Mentre leggevo
queste pagine mi ero lasciato chiudere nell’orizzonte di una sala
cinematografica. Ma quest’ultima espressione, un’arte à part entière, mi riportò d’improvviso alla mente, con
un’associazione imperiosa, un libro di storia che io amo molto: L’histoire à part entière di Lucien
Febvre. Confesso di aver pensato che, forse, anche Le Goff, definendo in quel
modo l’arte del cinema, avesse in mente la definizione di storia data da
Febvre. Sta di fatto che egli chiudeva di colpo il suo discorso sul cinema,
stringendo sulla storia: «Queste riflessioni sono ingenue, diceva, ma esse
hanno trovato dei prolungamenti nel mio mestiere di storico. Io credo che la
scrittura dello storico è più vicina al montaggio di un film di quanto non lo
sia, per esempio, al récit di un
romanzo».
Dunque grande
consapevolezza del valore artistico, letterario e persino cinematografico, del
discorso storico; ma del discorso storico colto in quel particolare momento in
cui è pensato per attivarne la ricezione
da parte del lettore. Su questo punto i fautori del Linguistic Turn non sospettano neppure quanto abbiano ragione,
quanto sforzo costi allo storico di talento la costruzione di metafore e
immagini per meglio veicolare la comunicazione del suo lavoro scientifico. Ma
dirò di più: per meglio comprendere egli stesso il suo lavoro scientifico, per
supplire alle difficoltà della formulazione concettuale delle sue analisi.
Sforzo tanto più necessario, tanto più ricco di metafore e di immagini, quanto
più nuove sono quelle analisi, quanto più esse hanno difficoltà a trovare
strumenti adeguati nel vocabolario e nella sintassi tradizionali,
inevitabilmente costruiti su conoscenze già ampiamente frequentate, già
consolidate.
Solo le
nozioni “note”, al punto di esser forse già esauste, sono facilmente
suscettibili di formalizzazioni concettuali pure, espresse in un linguaggio per
così dire “denotativo”. La terra
incognita nella quale penetra lo storico “creatore”, non può fare a meno di
metafore e di immagini: il suo repertorio “artistico”, o “retorico” che dir si
voglia, è a volte il solo strumento utilizzabile per far penetrare e
acclimatare le sue novità in quel vocabolario e in quella sintassi.
All’invenzione di concetti nuovi, di immagini nuove, lo storico è costretto se
non altro per adattare la nostra lingua attuale a dire cose del passato, che non
sono più attuali, e di cui essa non ha più cognizione, se non, a volte,
nebulosa e incerta. Si pensi a quanto straordinariamente, visionariamente
ricco, fosse il repertorio “artistico” di quel geniale e infaticabile inventore
di storia che fu Michelet!
*
Ma consentitemi,
per chiudere, di fare ancora un piccolo passo con le mie riflessioni sul lavoro
della “scrittura” di Le Goff. Forse egli potrebbe non accettare, o accettare
solo in parte, la definizione di “uomo di cinema” che gli attribuisco. Ma certo
non rischio di sbagliare, perché egli stesso ama così definirsi, se lo chiamo uomo della notte. Del resto, egli diceva
parlando di cinema, che il buio della sala cinematografica gli era necessario
per godere di un film: di quel film la televisione non sarebbe in grado di
garantire una corretta e piena ricezione.
Anche questa è
un’osservazione naïve. Certamente. Ma
può introdurci a un altro aspetto del lavoro di Le Goff. La notte! ambiente in
cui egli dice di vivere come un pesce nell’acqua. La notte gli è necessaria,
egli afferma, per la sua opera di “creatore” di storia. Curiosa espressione,
anche questa, “creatore”, da cucire sul petto di uno storico! Ma egli insiste a
dirsi al tempo stesso ricercatore e scrittore. E dunque gli pare naturale,
per il suo lavoro, andare in cerca della notte, di «questa penombra propizia al
ribollire di immagini e di idee». Certo il giorno gli è pure indispensabile:
«Il giorno è fatto per lavorare, per prendere appunti, per fare dei piani». Ma
per scrivere non c’è che la notte, egli sostiene: «per scrivere degli articoli,
dei libri nei quali si vorrebbe mettere un po’ di passione, la notte è incomparabile». La notte è il
luogo dell’ispirazione, di
quell’ispirazione, confessa, che non lo raggiunge se non dopo le dieci di sera!
Ma qui occore
essere attenti. Attenti, curiosi e cauti! Posso avanzare l’ipotesi che la notte
non procuri a Le Goff soltanto l’“atmosfera”, l’ambiente più opportuno per una
scrittura creativa? A me pare che qui ci sia dell’altro, e di più. E’ vero che
il giorno “è fattto per lavorare”, per attivare la parte faticosa del lavoro
storico, per avviare e compiere quelle che sono le procedure più esplicitamente
e propriamente scientifiche della ricerca storica. Il giorno dello storico è
animato, egli dice, dalla stessa “ginnastica intellettuale, fisica e materiale”
che anima la giornata del cineasta, animato dalle fatiche di quel tournage che precede sempre il montage, che è premessa e condizione del
montage. Il lessico diurno dello
storico è povero di metafore e di immagini, ed è pieno invece di cose e luoghi
che richiedono un’interminabile ginnastica intellettuale e persino fisica:
fonti, controlli filologici, archivi, biblioteche, ecc.
Ma il giorno e
la notte si alternano nel ritmo di lavoro dello storico come si alternano nel
ritmo della natura. E certamente, se il materiale scoperto, raccolto e
analizzato durante il giorno non è di valore, non c’è notte che sia capace di
farlo brillare di qualche luce.
Per questo, a
me pare, la notte di Le Goff non sia solo esornativa, non produce solo
ispirazione per la inventio delle
“immagini”. Produce anche “idee”: è una “cultura della notte”, come egli stesso
riconosce. Essa dunque condiziona il lavoro del giorno, gli indica almeno parte
delle strade e dei sentieri in cui cercare e raccogliere: «Nel buio succedono
delle cose, mentre sotto il sole tutto è sovraesposto». E Le Goff ha bisogno
della notte per “ritrovare il passato”, per dialogare con il passato: ne ha
bisogno, insomma, per attivare quel “va-et-viens continu” tra presente e
passato che è il proprio del lavoro
storico: va e vieni tra giorno e notte, va e vieni tra ragione e immaginazione.
La
concettualizzazione che Le Goff ci offre del Medio Evo, non è forse prodotto
anche della sua notte, oltre che del giorno? La sua adesione alla concettualizzazione dello spazio e del
tempo, che è forse il frutto più duraturo della tradizione delle Annales, da Bloch, a Febvre, a Braudel,
non ha nulla a che fare con la sua notte? Il suo “lungo medioevo”, lo spazio
della foresta medievale ampio e silenzioso come il deserto, non sono anche il
frutto di quella sua cultura della notte? Sentiamolo: «Diciamo che ciò che io
colgo della notte, è il tempo rallentato, che è anche quello che m’interessa in
storia. Per quanto riguarda lo spazio, io amo quello che si sente dall’altra
parte della finestra aperta sull’ombra: il sentimento dello spazio si prova con
più forza la notte che il giorno. La notte ci libera, tuffandoci in uno spazio
quasi infinito e in un tempo quasi immobile». La notte, l’immaginazione, libera
lo storico dalle abitudini mentali del presente, lo libera a quella riconquista
delle abitudini mentali d’altri tempi che è essenziale al dialogo tra presente
e passato; essenziale a evitare quell’anacronismo
che Febvre giudicava il peccato capitale dello storico: ridurre il passato alle
categorie mentali del presente.
*
La verità è
che Le Goff è uno storico incontentabile, insaziabile. Il giorno non gli basta,
e non gli basta la notte. E’ la vita che egli cerca nella storia, ricca di tutte
le più varie esperienze umane. Il suo immenso appetito di storia, appetito di
vita, non lo abbandona mai, che brilli il sole o la luna.
Non a caso il capitolo a lui dedicato di un libro di ego-histoires di parecchi anni fa, s’intitolava L’appetit de l’histoire. E mi ha fatto piacere ritrovare nel titolo di un libro che i suoi amici gli hanno dedicato l’anno scorso, in occasione del suo 75° compleanno, quell’immagine di “orgre historien” con la quale Marc Bloch aveva definito la figura dello storico e che io ho sempre mentalmente applicato anche a Le Goff: «Il buon storico somiglia all’orco della fiaba. Là dove fiuta carne umana, là egli sa che si trova la sua preda».
Non a caso il capitolo a lui dedicato di un libro di ego-histoires di parecchi anni fa, s’intitolava L’appetit de l’histoire. E mi ha fatto piacere ritrovare nel titolo di un libro che i suoi amici gli hanno dedicato l’anno scorso, in occasione del suo 75° compleanno, quell’immagine di “orgre historien” con la quale Marc Bloch aveva definito la figura dello storico e che io ho sempre mentalmente applicato anche a Le Goff: «Il buon storico somiglia all’orco della fiaba. Là dove fiuta carne umana, là egli sa che si trova la sua preda».
Tale a me
appare Le Goff, storico di raro talento.
Grazie a tutti
voi, e soprattutto al Prof. Le Goff, per avermi ascoltato con pazienza.
Francesco
Pitocco
***
Jacques Le Goff
L’histoire aujourd’hui
Pour vous parler de
la science historique aujourd’hui, je partirai d’un texte de Marc Bloch dans
son Apologie pour l’Histoire ou Métier d’Historien
.
« L’histoire
n’est pas seulement une science en marche. C’est aussi une science dans
l’enfance : comme toutes celles qui pour objet ont l’esprit humain, ce
tard-venu dans le champ de la connaissance rationnelle. Ou, pour mieux dire,
vieille sous la forme embryonnaire du récit, longtemps encombrée de fictions,
plus longtemps encore attachée aux événements les plus immédiatement
saisissables, elle reste, comme entreprise raisonnée d’analyse, toute
jeune ».
De quand peut-on
dater son apparition comme entreprise raisonnée ?
Je me range à
l’avis de l’historien allemand Reinhart Koselleck qui dans son ouvrage publié
en 1979 Vargungene Zukunft (Il futuro
passato) soutient que l’histoire est une notion et une discipline nées dans
la seconde moitié du XVIIIe siècle. Elle est un produit des Lumières au même
titre que les notions de politique, de religion et d’économie inconnus
auparavant.
La science
historique a connu une longue préhistoire depuis l’apparition du terme dans la Grèce antique avec le sens
de recherche, enquête puis de résultat d’une enquête, récit depuis la composition au Ve siècle avant
l’ère chrétienne des Histoires par Hérodote, le « père de
l’histoire ». Bernard Guenée a pu écrire en 1980 une excellente Histoire
et culture historique dans l’Occident médiéval, mais il n’y a pas
d’histoire raisonnée au Moyen Age. Le XVIe siècle humaniste a suscité une
double poussée de réflexion historique. D’une part un recours de la morale, de
l’éthique à l’histoire considérée comme magistra vitae – maîtresse de
vie. Dans cette ligne se situe Montaigne toujours en quête de
l’ « humaine condition » : « les historiens sont ma
droite balle…l’homme en général de qui je cherche la connaissance, y paraît
plus vif et plus entier qu’en nul autre lieu… ». D’autre part certains
auteurs de la fin du XVIe siècle réclament une histoire qui ne néglige aucune
connaissance importante, d’où le concept d’histoire parfaite qui,
dans un contexte et avec un contenu tout différents, évoque ce que sera
l’ambition d’histoire totale ou globale de la revue Annales et
l’exigence d’expliquer.
Les Lumières et le
XIXe siècle ont institué une coupure épistémologique qui a constitué l’histoire
comme science, mais cela s’est fait à la fois dans une perspective proprement
scientifique, rationnelle et dans une perspective idéologique. Celle-ci a été
celle du progrès relayé par l’évolutionnisme. L’histoire avait un sens, le
progrès remplaçait la providence et conservait certains des inconvénients
majeurs de la téléologie et pire encore, pour une majorité d’Occidentaux du
XIXe siècle et pour une majorité d’historiens, le progrès s’identifiait à la
nation, dans la perspective d’une eschatologie nationaliste dangereuse et
étouffante.
Je crois pouvoir
distinguer trois acquis principaux de la science historique au XIXe siècle.
Le premier est
l’élaboration de méthodes d’érudition – la constitution d’archives,
d’institutions savantes telles que
l’Ecole Nationale des Chartes en France et les Monumenta Germania Historica
en Allemagne à Munich, auxquels s’ajoutera l’Istituto Storico Italiano per il
Medio Evo à Rome brillamment dirigé aujourd’hui par Girolamo Arnaldi, la définition de documents comme sources de
l’histoire, la mise sur pied de techniques dites sciences auxiliaires de
l’histoire parmi lesquelles la chronologie dont on ne dira jamais assez qu’il n’y
a pas d’histoire sans chronologie. Il faut dire aussi avec force que cette
érudition, ces méthodes critiques restent et resteront une base essentielle de
la science historique et du travail de l’historien. Cette formation distingue
aussi l’historien professionnel de l’historien amateur.
Mais dès le XIXe
siècle la pratique devenue traditionnelle de l’érudition a abouti à un
dessèchement de la critique historique. Celle-ci s’est focalisée sur la
recherche du faux et a eu tendance à s’y réduire alors que la critique du
document doit répondre à un questionnement beaucoup plus large et plus riche.
Le second acquis a
été l’élaboration d’une définition qui a permis à l’histoire de prendre
pleinement sa place dans l’ensemble des sciences humaines et sociales au XXe
siècle. La définition est de Fustel de Coulanges (1830-1889) et elle a été
confortée et complétée par Marc Bloch dans la première moitié du XXe siècle,
« l’histoire est la science des hommes en société dans le temps ».
Les trois termes sont également importants et leur force vient de leur mise en
rapport. L’objet de l’histoire ce sont les hommes et les femmes vivant et
agissant de tout leur être (corps, sensibilité, mentalité compris) dans tous
les domaines (vie quotidienne, vie matérielle, techniques, économie, société,
croyance, idées, politiques, etc..) selon leurs caractères individuels mais
aussi et surtout collectifs d’où l’importance de l’étude des structures
sociales et de leur fonctionnement. J’insiste enfin dans le temps. l’importance
fondamentale pour l’historien de la dynamique des sociétés et sur
l’histoire comme science du mouvement et du changement. Il n’y a pas d’histoire
immobile.
L’histoire se
trouve ainsi définie comme une science de la vie (on peut considérer Michelet
comme le père de cette conception), des hommes vivants et donc changeant. Je ne
peux me retenir de citer une phrase célèbre de Marc Bloch : « Ce sont
les hommes que l’histoire vient saisir. Qui n’y parvient pas ne sera jamais, au
mieux qu’un manoeuvre de l’érudition. Le bon historien, lui, ressemble à l’ogre
de la légende. Là où il flaire la chair humaine, il sait que là est son
gibier ».
A quelle autre
définition s’oppose cette définition humaine, sociale de l’histoire ? A
celle-ci : « L’histoire est la science du passé ». Le
commentaire de Marc Bloch est sans appel : « l’idée même que le
passé, en tant que tel, puisse être l’objet de science est absurde. Des
phénomènes qui n’ont d’autre caractère commun que de ne pas avoir été
contemporains, comment sans décantage préalable en ferait-on la matière d’une
connaissance rationnelle ? » Insistons, l’histoire ce n’est pas la science des hommes du passé ou dans le
passé, c’est la science des hommes dans le temps, dans le changement.
Le troisième acquis
de la science historique au XIXe siècle est plutôt un blocage qu’une
acquisition vivante. Il résulte d’une abdication de l’historien devant le
document, d’un optimisme naïf dans le pouvoir du document, une fois que son
authenticité a été établie, de sécréter la connaissance historique.
Dans cette
évolution de la science historique, l’influence de Marx fut très limitée,
d’abord parce que son bagage historique était assez mince et surtout parce que
l’histoire dans la postérité marxiste fut submergée et complètement pervertie
par le marxisme-léninisme. Gramsci rappela vainement que dans l’expression matérialisme
historique le mot important était historique qui était scientifique et non
matérialisme qui était métaphysique.
Au début du XXe
siècle les limites, les dérives de cette histoire érudite et historiciste qu’on
allait appeler « positiviste », « événementielle »,
« historisante » suscitèrent de plus en plus de critiques et de
désirs de renouvellement. Le mouvement fut européen avec un écho aux
Etats-Unis. Y participèrent notamment l’historien belge Henri Pirenne
(1862-1935), le philosophe-historien italien Benedetto Croce (1896-1952) auteur
de la célèbre phrase : Toute histoire est contemporaine qui critiqua
l’historicisme dans une perspective à la fois idéaliste et marxiste et fonda
l’Istituto per gli Studi Storici dont il confia la direction à Federico Chabod,
le néerlandais Johan Huizinga (1872-1945), le roumain Nicolae Iorga
(1871-1932), la revue allemande Zeitschrift für Sozial=und
Wirtschafrsgeschichte, l’Institute for Historical Researches de Londres
(1921) et l’Institut pour l’étude comparative des religions d’Oslo (1925).Son
point culminant fut la création à Paris par Marc Bloch et Lucien Febvre de la
revue Annales d’Histoire Economique et Sociale (1929).
Avant d’esquisser
un bilan de l’héritage des Annales pour l’histoire aujourd’hui, je souligne que
la révolte contre l’histoire positiviste du XIXe siècle, geste capital, a eu
pour cible essentielle les conceptions de document, d’événement, de fait
historique – c’est tout un.
Contrairement à la
croyance naïve des historiens positivistes on s’est rendu compte que, selon le
mot de Paul Veyne, l’histoire doit être « une lutte contre l’optique
imposée par les sources » et Michel Foucault dans « la mise en
question du document » a défini l’histoire comme « ce qui transforme
les documents en monuments », c’est-à-dire qu’au lieu de déchiffrer
des traces laissées par les hommes » l’histoire « déploie une masse
d’éléments qu’il s’agit d’isoler, de grouper, de rendre pertinents, de mettre
en relations, de constituer en ensembles » (L’archéologie du savoir,
1969, 13-15). Plus fondamentalement l’événement, le fait historique ne sont pas
donnés par le sources à l’historien. Ils sont sa construction. L’histoire
devient ainsi définitivement une science car, comme toutes les sciences, elle
doit créer son objet.
J’en viens enfin à
la situation actuelle de la science historique.
Que reste-t-il de
l’héritage des Annales ?
- D’abord le
domaine défini par le titre. L’histoire économique et sociale. Mais l’histoire
économique a été déconsidérée par l’effondrement du marxisme et par
l’impuissance de l’économie à se glisser dans une problématique historique,
c’est regrettable.
- l’instauration d’un dialogue entre
l’histoire et les sciences sociales mais il a été limité par l’indifférence des
sciences sociales (sociologie, ethnologie/anthropologie) au temps et à
l’évolution historique
- L’horizon d’une
histoire totale ou globale qui n’a rien à voir avec l’affirmation que tout est
dans tout et réciproquement et qui ne s’est pas confondue avec une histoire
universelle à la place de laquelle Michel Foucault a suggéré d’élaborer une
histoire générale, tandis que Pierre Toubert et moi-même proposions le
choix d’objets globalisants (le Purgatoire, Saint Louis). Les Annales
ont aussi mis à la base de la démarche l’histoire-problème posant au
départ d’une recherche et d’une réflexion historique un problème et non un fait
ou un thème. Les Annales ont insisté sur l’étude des structures
mais selon un perspective dynamique qui refuse un structuralisme indifférent au
temps et qui n’oppose pas le collectif à l’individuel.
Enfin Marc Bloch en particulier a assigné à l’histoire
l’étude des relations réciproques entre passé et présent – celui-ci étant plus
volontiers défini comme l’actuel. Eclairer le présent par le passé mais aussi
le passé par le présent est devenu l’objectif de l’histoire. Dans son œuvre et
dans sa vie, Marc Bloch a montré l’étroite relation unissant l’historien,
l’amateur d’histoire et le citoyen.
Entre 1950 et 1980
divers compléments importants ont été apportés à la science historique, dans la
lignée des Annales. Fernand Braudel a attiré l’attention sur la
nécessité de situer la réflexion historique dans la longue durée.
Je crois que l’agencement
des temps de l’histoire est plus complexe et met en cause une pluralité plus
grande de temps historiques. Il faut retourner à Marc Bloch : « Le
temps humain…demeurera toujours rebelle à l’implacable uniformité comme au
sectionnement rigide du temps de l’horloge. Il lui faut des mesures accordées à
la variabilité de son rythme et qui, pour limites, acceptent souvent, parce que
la réalité le veut ainsi, de ne connaître que des zones marginales. C’est
seulement aux prix de cette plasticité que l’histoire peut espérer adapter,
selon le mot de Bergson, ses classifications aux « lignes mêmes du
réel », ce qui est, proprement, la fin dernière de toute science ».
Et, j’ajoute, une histoire qui confrontera sans cesse le temps mesuré au temps
vécu.
En approfondissant
le dialogue avec l’ethnologie, les historiens issus des Annales, ont
élaboré une anthropologie historique définie comme une démarche de
totalisation ou plutôt de mise en relation des différents niveaux de la réalité
préfigurée dans l’histoire des mœurs de Tocqueville.
De même ces
historiens ont bâti une histoire des mentalités, une histoire des
représentations, une histoire de l’imaginaire. Désormais la réalité historique
est l’ensemble de deux volets : la réalité des faits et la réalité de leurs
échos dans la conscience, réalités factuelles et réalités imaginaires. Et
l’histoire des mentalités se double d’une histoire des valeurs, des
idées-forces réfractées dans les consciences et les comportements, une histoire
intellectuelle et des mentalités remplaçant la vieille histoire des idées, la
Geistesgeschichte allemande.
Mais il ne faut pas
non plus exagérer la portée de la nouvelle histoire des mentalités, elle ne
pèse pas sur l’évolution historique comme une causalité première. Beaucoup
d’historiens désarçonnés par l’effrondrement de l’économie comme causalité
primaire générale se sont rabattus sur les mentalités pour tenir ce rôle. C’est
une autre erreur. De même un nouveau domaine a pris en histoire une grande
ampleur : l’historie culturelle et on l’a aussi utilisée comme causalité
historique générale. L’explication de l’histoire et de l’évolution historique
par la culture est une erreur comparable à l’ancienne causalité économique même si la notion d’histoire culturelle
fournit un pont avec l’anthropologie et a permis d’intégrer plus facilement des
réalités humaines que l’idée de civilisation intégrait moins bien.
Malgré ces
enrichissements l’histoire définie par la mouvance des Annales a donné à
partir de 1980 environ de plus en plus de signes d’essoufflement, voire
d’épuisement et elle a été l’objet d’une convergence de critiques leur
reprochant d’écraser les hommes sous les structures de tendre à une histoire
immobile et de sacrifier la spécificité de l’histoire aux abstractions de
sciences sociales en dehors du temps.
Cette crise de
l’histoire des Annales s’inscrit dans une plus large « crise de
l’histoire » en général. En discuter déborderait largement le peu de temps
qui me reste.
Je me contenterai
de trois remarques.
Si l’on entend par crise
la déconstruction d’un système et la phase de troubles et de turbulences qui,
selon la conception gramscienne, prépare la construction d’un nouveau système
et qui est plus riche de promesses et d’invitation à l’effort intellectuel que
de contemplation découragée de ruines, alors oui, l’histoire est en crise mais
je préfère parler de mutation parce que c’est regarder l’avenir, tandis que
crise est trop tourné vers un passé dont il faut reconnaître les héritages
vivants mais auquel il faut savoir s’arracher pour bâtir mieux sans nostalgie,
avec lucidité, critique constructive et volonté.
Si je dis que cette
crise est liée à celle des sciences
sociales dans leur ensemble et celle-ci à celle de notre société et de notre
savoir globalement ce n’est pas vouloir noyer le poisson mais c’est définir
l’ampleur du problème et de la tâche, et souligner qu’il ne peut s’agir de
retouches ou de retours mais que c’est tout un bloc historique et scientifique
qu’il s’agit de prendre à bras le corps.
Le problème n’a pas
échappé au comité de direction des Annales qui dans le numéro de
mars-avril 1988 a publié un texte intitulé : « Histoire et sciences
sociales : un tournant critique ? »
Le moment est venu,
y écrivions-nous, de rebattre les cartes » et nous y esquissions de
nouvelles méthodes, citant deux d’entre elles : « les échelles
d’analyse et l’écriture de l’histoire » et de « nouvelles
alliances », en d’autres termes repenser et redéfinir une pratique de
l’interdisciplinarité. Et nous concluions : « le moment ne nous
paraît pas venu d’une crise de l’histoire dont certains acceptent, trop
commodément, l’hypothèse. Nous avons en revanche la conviction de participer à
une nouvelle donne, encore confuse, et qu’il s’agit de définir pour exercer
demain le métier d’historien ». J’ai le sentiment que nous ne sommes pas
encore sortis de cette phase mais je crois que nous prenons mieux conscience du
caractère général d’une mutation qui dépasse l’histoire. Comment s’en étonner
quand on professe une conception de l’histoire qui la pratique dans toute
l’épaisseur et la profondeur des réalités humaines ?
J’ai traité
ailleurs des retours qui semblent occulter l’héritage des
« Annales », retour de l’histoire politique, de l’événement, de
l’histoire-récit, de la biographie et du sujet
Pour terminer
permettez-moi d’énumérer sans développer, je n’en ai plus le temps – les
principales tâches de la recherche historique – nombreuses et majeures en ce
temps de mutation des sciences sociales, de la société et du savoir.
Nouer de nouvelles
relations avec les sciences sociales . Je souhaite quant à moi la
constitution d’une anthropologie historique regroupant histoire, sociologie et
anthropologie animée par la recherche et l’explication du changement des
sociétés dans le temps sur tous les plans. Cette science devrait rester en
étroit contact avec la géographie car
une des lignes du renouvellement de l’histoire doit se poursuivre par
des recherches sur les temps et les espaces et leurs dynamiques.
L’histoire doit
retrouver un objet synthétique et briser la catastrophique fragmentation en
histoire politique, sociale, économique, cultuelle, histoire de l’art, histoire
du droit, etc..
La sémantique
historique clarifiant les termes et les concepts, au-delà d’une philologie
inerte, dans une perspective de transformations et de créations, doit permettre
une relecture décapante des documents.
L’étude des sources
doit continuer à s’élargir au-delà des textes – en transformant en documents
d’histoire les images, les résultats de l’archéologie, les gestes, les
paysages, etc…Il faudra un jour songer à cerner les trous, les lacunes de la
documentation, à construire une histoire des silences. Cette tâche implique une
régénération complète des sciences auxiliaires et une exploration de la
production historique de la mémoire.
La science
historique doit s’approprier en se les adaptant les nouveaux instruments
informatiques opérateurs de découvertes et de conquêtes.
L’histoire doit
prendre désormais en couple les séries de faits et les séries de représentations.
L’histoire est faite autant d’imaginaire que de réalités positives.
L’histoire comparée
appelée de ses vœux par Marc Bloch doit se développer dans une perspective
d’histoire générale. Pour cela elle doit se désoccidentaliser et créer des
structures d’attente pour des histoires latentes ou autres.
L’histoire doit
plus que jamais prendre pour objets les hommes et la vie – intégralement mais
selon des démarches rationnelles et critiques.
L’histoire récente
a lancé la mémoire à l’assaut de l’histoire. L’histoire devra continuer à se
nourrir de la mémoire, ,pourvoyeuse de vie mais séparer la bonne mémoire,
passionnée de vérité de la mauvaise, corrompue par les passions agressives et
perverties – nationalistes notamment. Il faut que l’histoire cesse d’être ce
que Hegel appelait un « fardello » pour réaliser la
fonction de « mezzo » di
liberazione del passato » que lui
assigne G. Arnaldi.
Elle devra essayer de mordre rationnellement
sur l’avenir, tâche que lui impose l’échec de la futurologie et le déchaînement
des élucubrations divinatoires anciennes et nouvelles pour prolonger
prudemment sa maîtrise du temps au-delà du passé et du présent et pour essayer
de répondre plus pleinement à la question : « A quoi ça sert
l’histoire ? ». A répondre rationnellement à l’interrogation :
« Qui sommes-nous ? D’où venons-nous ? Où
allons-nous ? ».
Tâche immense,
exaltante. Je reviens à mon commencement. La science historique est dans
l’enfance. De grands espoirs lui sont permis.. Au travail ! Et comment
mieux y travailler que dans cette ville qui a l’expérience des grands
renouvellements, des grandes refondations de l’Antiquité au christianisme et
aux diverses renaissances ?
Jacques Le Goff
*
Paris, le 3 Novembre 2000
Cher Francesco,
Pardonnez-moi d’avoir attendu d’etre rentré à Paris pour vous dire ma profonde reconnaissance pour la façon dont vous avez préparé la journée, pour moi mémorable, de mon Doctorat Honoris Causae à la Sapienza. Vous ai-je bien dit que votre superbe laudatio, quoique trop flatteur, m’est allé droit au coeur et je sais qu’il a beaucoup impressionné l’assistance. Me ferez-vous l’amitié de m’en envoyer une copie ? Ce serait un souvenir particulièrement précieux pur moi !
Si vous avez l’occasion de venir à Paris, soyez sur que vous trouverez en moi un ami qui vous accueillera chaleureusement. Si cela se produit, veuillez me prévenir un peu à l’avance.
Veuillez agréer, Cher Francesco, l’expression de ma profonde et amicale gratitude.
Jacques LE GOFF
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