Alessandra Ciattini, Prof.ssa Antropologia religiosa Un. La Sapienza, Roma |
"La politica della Banca mondiale e il sistema della educazione universitaria e della ricerca. Per la concezione monetarista, l’educazione non è un diritto o un servizio, ma un investimento delle famiglie. Le trasformazioni e i progetti di riforma dell’università italiana e la filosofia dell’«individuo asociale»."
Ringrazio Alessandra per aver risposto al mio invito di inviarmi un suo giudizio sulla situazione attuale della nostra università. Mi sembra molto importante ch'ella non essere rimasta legata alla situazione degli ultimissimi anni, e di avere cercato le radici della crisi attuale nel lungo periodo e nella situazione geopolitica complessiva che si è ndata sviuppando.
Mi auguro che altri colleghi vogliano intervenire con la massima libertà, secondo i loro interessi culturali. (F.P.)
TRASFORMAZIONE DELL’UNIVERSITÀ
E POLITICHE NEOLIBERISTE
Alessandra Ciattini
La politica della Banca mondiale e il sistema della educazione universitaria e della ricerca. Per la concezione monetarista, l’educazione non è un diritto o un servizio, ma un investimento delle famiglie. Le trasformazioni e i progetti di riforma dell’università italiana e la filosofia dell’«individuo asociale».
Per affrontare in breve una questione tanto complessa e ricca di motivazioni e implicazioni come quella dell’attuale trasformazione della natura e della funzione dell’università a livello internazionale, prendo le mosse da un presupposto teorico ampiamente condiviso dai cultori delle scienze sociali: le trasformazioni della forma e dell’organizzazione sociale complessiva generano cambiamenti più o meno profondi nelle diverse sfere e nelle varie istituzioni che interagiscono in un certo contesto storico-sociale.
Se tale presupposto è ancora dotato di validità teorica, è chiaro che la campagna di stampa dedicata ai problemi dell’università italiana negli ultimi anni, basata su affermazioni del genere: «I giovani impiegano troppo tempo a laurearsi», o «I professori universi-
tari insegnano in maniera vecchia», è stata sollecitata da altre motivazioni. Tali motivazioni e ragioni purtroppo non appaiono sulla grande stampa, che pure si occupa del problema «università», e non compaiono neppure negli articoli pubblicati da illustri docenti
«addetti ai lavori». Mi riferisco a quei professori, di diverso orientamento politico, che seguono da anni la questione universitaria, il processo «riformatore» in atto, e che in definitiva influiscono direttamente o indirettamente sulle scelte governative (quale che sia il governo in carica) in questa complicata e delicata materia.
Rifacendomi al principio su enunciato, credo dunque che, se vogliamo capire cosa sta succedendo non solo nell’università italiana, ma anche in quella di tutti gli altri paesi che non possono sottrarsi alle pressanti indicazioni della Banca mondiale, dobbiamo in primo luogo chiederci, senza la pretesa di essere esaustivi, quali sono stati i cambiamenti politicosociali radicali ai quali abbiamo assistito impotenti negli ultimi decenni, tentando almeno di indicarli per sommi capi.
L’attacco allo Stato sociale
Mi pare che i cambiamenti profondi di cui dobbiamo tenere conto hanno per sfondo la grave crisi economica iniziata negli anni settanta e riconosciuta da storici ed economisti di vario orientamento (cfr., ad esempio, Hobsbawm, 1994: cap. XIV; Arrighi, 1996: 391423). A tale crisi economica dobbiamo aggiungere un altro evento di straordinaria importanza rappresentato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’Est europeo ad essa legati. Tema questo di somma importanza, che però sembra essere stato rimosso, giacché finora – mi pare – non è stato affrontato in maniera approfondita dagli studiosi che si dichiarano ancora oggi marxisti e/o appartenenti all’area della sinistra.
Ovviamente non posso soffermarmi sul primo argomento, che del resto è oggetto di un ampio dibattito ancora in corso e che può essere trattato sicuramente in maniera più corretta ed esauriente da un economista. Per questa ragione mi limiterò a citare per sommi capi alcuni fatti, che – non solo a mio parere – fanno da sfondo alla questione «università» e ne fanno un problema non solo italiano, ma mondiale.
Sostanzialmente si può affermare che la crisi economica è iniziata negli anni settanta, quando si concluse la cosiddetta età dell’oro del capitalismo, che era stata caratterizzata dalla sua espansione commerciale e produttiva. Il carattere di questa crisi è rappresentato dalla presenza di capitali in eccesso, che per produrre profitti debbono essere investiti nella speculazione finanziaria; profitti che l’investimento nell’attività produttiva non è più in grado di garantire a causa della crisi di sovrapproduzione. Tale crisi mondiale ha dimezzato il ritmo di crescita del Pil, rendendo impossibile l’accumulazione; essa ha inoltre inciso sull’occupazione, determinando una sensibile diminuzione dei contributi versati allo Stato. A sua volta tale diminuzione ha determinato la messa in discussione di tutta la spesa sociale, ossia quell’insieme di servizi (il cosiddetto salario sociale) come l’educazione, la sanità, le pensioni, le varie forme di assistenza, ecc., che nei decenni precedenti lo Stato garantiva quali diritti ai suoi cittadini. Ciò ha anche provocato la limitazione degli investimenti statali per garantire il lavoro alla maggioranza della popolazione.
Abbiamo assistito così ad una battaglia tutta ideologica e difensiva di ben determinati interessi, che tutt’ora continua, benché già se ne vedano gli esiti nefasti, contro il cosiddetto Welfare State, contro l’«immorale» e «improduttivo» assistenzialismo, contro l’«assurda pretesa» di avere un lavoro stabile, contro tutte le politiche di sostegno economico-sociale ai lavoratori.
Come si è già detto, i poteri economici hanno tentato di uscire da questa crisi, intraprendendo la strada della speculazione finanziaria, ma anche sviluppando il cosiddetto keynesismo militare (come le tragiche guerre di questi ultimi anni ci ricordano), e nello stesso tempo riuscendo a impadronirsi, nei vari paesi, di quelle società o istituzioni che fornivano servizi di pubblica utilità. Un’altra strategia è stata quella di impadronirsi delle risorse materiali che prima lo Stato investiva nei servizi e che quindi tornavano ai cittadini come salario sociale. L’attacco allo Stato sociale è stato reso più agevole anche dal collasso dei paesi socialisti dell’Est europeo, che ha favorito ulteriormente l’affermazione del neoliberismo e la distruzione dei diritti sociali.
Naturalmente il ritorno al liberalismo, il disfacimento dello Stato sociale e il processo di privatizzazione ad essi connesso hanno riguardato anche il settore fondamentale dell’educazione, della formazione e della ricerca scientifica. Ciò è avvenuto in varie forme, che cercherò di descrivere brevemente, e non ovviamente per ragioni puramente economiche. Vi sono infatti anche ragioni squisitamente politiche e – direi – anche filosofiche e culturali, che strettamente si compenetrano con le prime. Infatti, la nuova fase capitalistica (anche se non originale) che stiamo vivendo richiede individui con una concezione del mondo, una cultura adeguata e funzionale ad essa. Credo che il nucleo di tale concezione, benché non sostanzialmente diverso rispetto al liberalismo di Adam Smith, sia ben individuato dall’espressione coniata da Hobsbawm (1995: 28): «individualismo asociale assoluto».
Bisogna aggiungere che l’interesse per l’università e la ricerca anche in quei paesi come il nostro in cui avevano costituito quasi un mondo a parte –, mostrato in questi ultimi decenni dai poteri economici, è dato anche dal fatto che la conoscenze e le innovazioni tecnologiche, incamerate nei prodotti, ne incrementano il valore, facendo lievitare anche i profitti.
Banca mondiale, università e ricerca
Prima di procedere a descrivere il processo di trasformazione subito dal sistema dell’educazione universitaria e della ricerca, sarà bene ribadire che si tratta di un fenomeno mondiale, che sta riguardando le istituzioni universitarie sia del mondo a capitalismo avanzato sia dei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Alla base di tale processo di trasformazione sta la politica neoliberale (laissez faire, laissez aller) portata avanti dalla Banca mondiale, la quale facendo leva sullo strumento dei prestiti ha favorito certi cambiamenti giudicati opportuni dal punto di vista dei suoi funzionari e intellettuali. Ovviamente la Banca mondiale – basterebbe citare i nomi dei suoi funzionari1 – rappresenta gli interessi dell’attuale capitalismo transnazionale, dominato dagli Stati Uniti, che però per alcuni studiosi sarebbero già entrati in crisi e darebbero segni di indebolimento a vantaggio di altri centri capitalistici (Arrighi,1996: 425466).
Ricavo la convinzione che il processo di trasformazione dell’università sia un fenomeno mondiale da una serie di documenti provenienti da vari paesi (Belgio, Francia, Gran Bretagna, Brasile, ecc.), oltre che da un ottimo lavoro non pubblicato intitolato The New Economic Global Order and its Effects on Higher Education Policies, scritto da Angela C. De Siqueira, presentato come dissertazione di dottorato all’Università dello Stato della Florida (College of Education) nel 2001. Questo materiale mostra – cosa a prima vista stupefacente – come le varie riforme che in questi ultimi anni hanno scolvolto l’università italiana siano descritte, sollecitate, utilizzando gli stessi principi, gli stessi slogan e le stesse considerazioni, da un gruppo di intellettuali e specialisti, facenti capo alla Banca mondiale e avendo avuto come laboratorio il Cile di Pinochet.
Fino agli anni sessanta l’Unesco, un’altra istituzione multilaterale, si è occupata in maniera particolare del problema educativo, avendo come punto di riferimento la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1948), e quindi muovendosi nella prospettiva dell’educazione come diritto inalienabile. Per quanto riguarda la formazione e l’educazione, il ritorno al liberalismo comporta una nuova concezione di queste ultime. Come è noto, soprattutto nei paesi più influenzati dalle idee della Rivoluzione francese e di J. J. Rousseau, l’educazione in generale e quella universitaria in particolare erano considerate un diritto dell’uomo e del cittadino, che lo Stato doveva garantire. In questi paesi, soprattutto europei, veniva stabilita anche una stretta relazione tra educazione e democrazia, nel senso che il cittadino poteva esercitare pienamente i suoi diritti politici solo se avesse avuto la possibilità di educarsi, di conoscere la storia, il funzionamento della vita sociale, ecc. Solo in questo modo poteva essere un agente politico consapevole, in grado di scegliere in maniera razionale e fondata.
Bisogna aggiungere, tuttavia, che molto spesso – anche in Italia – questi principi non si concretavano in pratiche effettive ed efficaci e restavano vuote parole. Ad esempio, in Europa solo uno scarso numero di giovani provenienti da famiglie operaie e contadine arrivava a frequentare l‘università, nella quale si formavano e si formano invece soprattutto i giovani appartenenti alla piccola e alla media borghesia. E ciò perché questi ultimi possono continuare a studiare senza aver bisogno di lavorare; ed inoltre hanno la preparazione culturale necessaria, derivata loro dalla tradizione familiare2.
Due modelli
Alla base dell’università europea continentale sta un’altra idea importante, elaborata da Wilhelm von Humboldt, secondo la quale l’istituzione universitaria deve per sua natura essere autonoma dal potere politico e per questo trovare risposta ai problemi generali della società. Come Rousseau, tuttavia, egli era convinto che lo Stato deve promuovere l’educazione e lo sviluppo morale dei cittadini, organizzando le scuole e le università, dove si insegna soprattutto ad apprendere (Geymonat, 1988: 2223). Per Humboldt, che fu ministro per l’istruzione e il culto della Prussia e fondò l’università di Berlino, le istituzioni universitarie devono essere al servizio della nazione e per questo non possono essere strettamente legate alle limitate e contingenti esigenze di una certa fase storica e sociale. Esse devono guardare al futuro della vita sociale e nazionale, mirare al possibile, al cambiamento e, nello stesso tempo, a ciò che resta valido nonostante la trasformazione storica. Egli sottolineava inoltre che nell’istituzione universitaria deve esservi una stretta connessione tra didattica e ricerca. Senza le innovazioni apportate dalla ricerca non può darsi una didattica aperta ai cambiamenti, alla critica dell’ordine esistente.
Bisogna segnalare, tuttavia, una sostanziale differenza tra le università ispirate al modello francese e tedesco e quelle invece sviluppatesi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Infatti, il modello anglosassone non prevede un forte legame tra università e Stato, anche se da quest’ultimo tutte le università, comprese quelle private, ricevono gran parte dei loro finanziamenti. In questi paesi le università hanno sempre goduto di ampia autonomia, non essendo sottoposte ad alcuna forma di controllo ministeriale, ma nello stesso tempo hanno sempre subito l’influenza di quegli interessi privati che le hanno sovvenzionate. Pertanto ne consegue che questo tipo di istituzione universitaria, non improntata ad un modello generale e non istituita dallo Stato, è apprezzata dai teorici del neoliberalismo e dai fautori della trasformazione dell’università.
In particolare, bisogna aggiungere che i poteri economici hanno sollecitato – anche da noi – la trasformazione dell’università e/o la creazione di istituzioni terziarie non universitarie, al cui modello la prima dovrebbe ispirarsi. Queste ultime sono presenti in altri paesi in varie forme; appaiono dotate di una grande flessibilità; sono in grado di soddisfare i bisogni della società e dell’economia; e sono capaci di preparare i giovani alle nuove professioni tecniche, manageriali ecc. In queste ultime, la ricerca è assente o ha un ruolo secondario, i corsi sono brevi, vi sono scarse attrezzature, ma garantiscono agli organizzatori consistenti profitti. È interessante notare che l’Associazione Treellle, di cui è presidente Umberto Agnelli, nella pubblicazione già menzionata, chiama i poteri economici con un termine neutro, stakeholders (portatori di interessi), e attribuisce loro anche un ruolo nella governance delle università (2003: 12, 48). Inoltre, essa individua una serie di nuove missioni per l’università, la quale oggi non avrebbe più il monopolio della ricerca. Tali nuovi compiti, dettati dall’esigenza di trovare l’equilibrio tra l’accrescimento disinteressato della conoscenza e il suo uso a fini pratici, riguardano la diffusione della cultura scientifica, la valorizzazione del territorio, ecc. Ma l’università sarebbe anche chiamata a far sorgere nuove imprese, a favorire il trasferimento tecnologico verso di esse, imprese con le quali infine dovrebbe stabilire relazioni di «parternariato» (2003: 19-20).
Possiamo dimostrare che in alcuni paesi questo processo di trasformazione è già molto avanzato. Ad esempio, in Belgio importanti esponenti delle imprese capitalistiche siedono nei consigli di amministrazione delle università, indirizzandone la ricerca e l’insegnamento. È quanto ricaviamo da un opuscolo pubblicato nel 1998 a cura del Partito belga del lavoro.
La presenza di più modelli universitari (franco-tedesco e anglosassone) è molto importante, anche perché le grandi potenze coloniali e neocoloniali hanno importato nei loro domini diretti e indiretti il modello metropolitano. Per questa ragione, ad esempio, in Africa le istituzioni universitarie sono differenti a seconda del paese: il modello anglosassone è applicato nei paesi ex-colonie della Gran Bretagna, quello francese in quelli un tempo dominati dalla Francia.
A questo punto penso risulti abbastanza chiaro che, se il radicale cambiamento prodottosi in questi ultimi decenni significa – come si è visto – che l’università deve rispondere con le sue attività di ricerca e di insegnamento alle esigenze immediate del sistema economico vigente e dei suoi gruppi dominanti, ciò implica inevitabilmente l’alterazione della sua natura e lo snaturamento della sua funzione, così come erano state definite in precedenza dalle correnti di pensiero su menzionate. Naturalmente ciò vale soprattutto per quei paesi che avevano adottato il modello franco-tedesco di università.
Tale snaturamento e tale alterazione si fondano in primo luogo sulla nuova concezione dell’educazione elaborata dai funzionari dalla Banca mondiale e rapidamente recepita dai governi dei paesi sviluppati, ma anche da quelli che ancora ci ostiniamo a definire in via di sviluppo. Si tratta della cosiddetta «concezione monetaristica» dell’educazione, il cui background scientifico e culturale è costituito dalla riflessione degli economisti della Scuola di Chicago (i «Chicago Boys»), tra quali ricordiamo i premi Nobel Frederic Hayek e Milton Friedman.
Educazione come investimento
Secondo la concezione monetaristica l’educazione non deve esser più né un diritto né un servizio garantito dallo Stato, ma un investimento fatto dallo studente e dalla sua famiglia, che darà i suoi frutti nel futuro, quando il titolo di studio «acquistato» sarà speso sul mercato del lavoro, garantendo al giovane un lavoro remunerato in proporzione al denaro investito e alla quantità di cognizioni acquisite. Come ho già anticipato, tale concezione era già presente nella riflessione di Adam Smith, il quale sosteneva che l’educazione deve essere pratica ed utile ed inoltre deve essere diversa a seconda della collocazione sociale degli individui. A suo parere, infatti, i poveri devono poter usufruire solo della formazione elementare a basso costo, che avvia a un mestiere («professionalizzante», si dice oggi), e devono anche apprendere a obbedire ai loro superiori3. Infatti, l’economista scozzese scrive che lo Stato trae vantaggio dall’istruzione dei ceti inferiori, giacché «una popolazione istruita e intelligente è sempre più educata ed ordinata di una ignorante e stupida». Egli aggiunge, sempre riferendosi agli appartenenti alle classi popolari: «Si sentiranno, ognuno singolarmente, più rispettabile, più degno della stima dei superiori, e saranno quindi più disposti a rispettarli» (1976: 98).
Si potrebbe dire che la trasformazione dell’educazione in investimento, alimentata da tutto uno strumentario ideologico che ben conosciamo anche in Italia (il sistema dei crediti, i prestiti d’onore agli studenti, il laureato come prodotto finito), è stata un’operazione il cui obiettivo primario era quello di diminuire i costi dell’istituzione universitaria, addossandoli in massima parte agli studenti e ai lavoratori dell’università. Questi costi comprendono sia quelli relativi all’istruzione vera e propria, sia quelli ad essa collegati come i costi per il trasporto, per l’acquisto dei libri di testo, per le abitazioni degli studenti che non vivono in famiglia. Infatti, sin dagli anni settanta la Banca mondiale auspica la riduzione dei costi del processo educativo, nella prospettiva del ridimensionamento dello Stato sociale e della riduzio-
ne dei servizi da esso prima garantiti, ora in larga parte erogati da privati e trasformati in merci da acquistare sul mercato.
Nel 1978 un gruppo di studiosi della Banca mondiale ha prodotto una serie di studi sul tema dell’educazione, in cui viene applicato il paradigma monetarista sopra illustrato. In questi scritti si applica al processo formativo, alle istituzioni scolastiche e universitarie il criterio del rapporto tra costi e benefici. Facendo riferimento a questo criterio si afferma che gli studenti possono raggiungere una buona preparazione, utilizzando un numero maggiore di libri, anche se non viene aumentato il numero dei loro insegnanti e/o migliorata la loro qualità. Analogamente in questi scritti si fa presente che il numero ridotto di studenti per classe non migliora l’apprendimento. Inoltre, si afferma che è opportuno sottoporre gli insegnanti all’addestramento piuttosto che sviluppare e approfondire le loro conoscenze e la loro capacità di insegnare. La parola addestramento (training) sta a indicare l’acquisizione di un metodo standardizzato di insegnamento, che del resto si coniuga con l’introduzione del criterio dell’efficienza nel processo educativo. Quest’ultimo può esser così formulato: ottenere il massimo risultato (output), col minimo possibile di risorse impiegate (input) (De Siqueira, 2001: 198-199).
Il criterio dell’efficienza può essere applicato a vari aspetti del processo educativo. Ad esempio, può essere misurata la «produttività» didattica e scientifica del docente – sempre secondo criteri quantitativi –, oppure si può tenere conto della «produttività» delle singole università, tagliando ad esempio (come è avvenuto in Italia) i fondi a quegli atenei che avevano troppi studenti fuori corso. In definita, si può affermare che la «produttività» di un ateneo sta nel numero degli studenti che riesce a far laureare, i quali sarebbero i suoi «prodotti finiti».
Un documento molto importante a questo proposito è lo studio di George Psacharopoulos del 1980, ampiamente illustrato da Angela De Siqueira nella sua dissertazione (2001: 205-207). Psacharopooulos è un economista formatosi all’Università di Chicago e seguace dell’approccio monetarista, che applica il criterio costi/benefici al processo educativo. Nonostante ciò, nel suo studio, descritto dalla De Siqueira, risalente al 1980, egli riconosce che è assai difficile misurare in termini quantitativi o addiritura monetarizzare i risultati del processo educativo. Egli si rende cioè conto delle difficoltà che incontra chiunque voglia valutare in termini quantitativi qualcosa la cui natura è essenzialmente qualitativa. Ma la consapevolezza di tali difficoltà non fanno abbandonare a Psacharopoulos il criterio costo/benefici. Infatti egli scrive che gli investimenti nell’istruzione e nella formazione debbono tenere conto del budget che hanno a disposizione i governi, senza tenere conto del fatto che la consistenza di quest’ultimo è determinata dalle scelte politico-sociali nelle quali si esprimono certi orientamenti e certi interessi. Basti pensare alla politica di riduzione delle tasse fatta a vantaggio delle classi alte nei paesi capitalistici avanzati; riduzione che ha spinto qualcuno ad asserire giustamente che veniva abbandonato il criterio democratico e redistributivo della progressività nella tassazione.
La limitazione del budget viene usata per giustificare la riduzione degli investimenti statali nelle scuole e nelle università, per favorire lo sviluppo di analoghe istituzioni private e per trasferire questi costi agli studenti e alle loro famiglie. Mi limito a ricordare che il già citato Quaderno 3 dell’Associazione Treellle propone un aumento della contribuzione studentesca al funzionamento dell’università (cosa che sta tentando di fare anche Blair). Ciò è del tutto in sintonia con quanto precedentemente affermato dagli autori del Quaderno, i quali appunto scrivono: «l’istruzione universitaria, che assicura un servizio pubblico, deve rimanere impegno primario dello Stato, ma rappresenta anche un investimento individuale (proporzionale all’impegno profuso) per i notevoli vantaggi personali che ne derivano (status, occupazione, reddito)» (2003: 51; corsivo mio).
Secondo la Banca mondiale, un altro fattore importante, su cui intervenire per ridurre i costi dell’istruzione, è rappresentato dal fatto che in generale gli insegnanti hanno sempre avuto un posto di lavoro stabile e un salario mensile fisso. Nella nuova università ciò non è più possibile, bisogna quindi introdurre la precarietà e/o collegare il salario alla produttività del docente. Quest’ultima sarà misurabile utilizzando metodologie di insegnamento e testi standardizzati, che consentiranno di valutare la performance dello studente. Inoltre, come mostra lo sviluppo delle cosiddette università telematiche, nelle quali di fatto non si fa nessuna attività di ricerca, gli insegnanti possono essere sostituiti da mezzi audiovisivi (De Siqueira, 2001: 207-210).
Quanto ai paesi del Terzo mondo, la Banca mondiale suggerisce in generale di limitare gli investimenti all’istruzione elementare e di pagare i debiti contratti con le grandi banche occidentali. Non posso soffermarmi nel dettaglio sui cambiamenti introdotti nelle università del Cile, della Cina e del Brasile, ampiamente descritti dalla De Siqueira, ma che si ispirano alla logica qui ricostruita.
La trasformazione dell’università italiana
Una descrizione molto sintetica del processo «riformatore» che ha riguardato negli ultimi anni l’università italiana potrebbe essere questa: nel 1989 è stata varata l’autonomia statutaria dell’università, che ha di fatto significato un primo passo verso la disgregazione del sistema universitario pubblico; nel 1993 si è imposta l’autonomia finanziaria, che ha determinato la progressiva riduzione dei finanziamenti agli atenei. La legge finanziaria del 1994 ha introdotto il cosiddetto finanziamento a budget, che ha per così dire cristallizzato la consistenza delle risorse che lo Stato dà alle università, non tenendo conto del suo sviluppo futuro in termini di didattica e di ricerca. Successivamente, nel 1997, è stata fatta la riforma dei concorsi, che si è trasformata in una forma mascherata di ope legis per i candidati locali, denunciata da molti illustri docenti, i quali ora auspicano il ritorno al concorso nazionale. Più recentemente è stata introdotta la cosiddetta riforma didattica (il 3+2, per intenderci, che l’attuale governo vorrebbe modificare), che ha sancito la differenza tra la laurea breve professionalizzante (meno costosa) e la laurea specialistica, che dovrebbe avviare alla ricerca, alla docenza e alle funzioni direttive. Il 3+2 ha comportato l’introduzione del sistema dei crediti di origine statunitense, la cui utilità starebbe nel rendere leggibili e comparabili i titoli di studio conseguiti, facilitando così la mobilità lavorativa degli studenti. Inoltre, successivamente, per ridurre i costi del personale tecnico amministrativo, è stato liberalizzato il ricorso ai contratti a tempo determinato e l’impiego dei lavoratori interinali, che possono costituire fino al 20% dell’organico in servizio negli atenei.
A tutto ciò si aggiunga che le leggi finanziarie degli ultimi anni hanno previsto la trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato (auspicando l’arrivo di investimenti privati in sostituzione di quelli pubblici via via assottigliatisi, e forme di esternalizzazione dei servizi) e hanno bloccato sia le assunzioni dei docenti che del personale tecnico-amministrativo. Nello stesso tempo si è colpito il diritto allo studio, cancellando ad esempio il presalario, chiudendo le case per gli studenti e introducendo i cosiddetti prestiti d’onore e un sistema premiale di sostegno allo studio, che si configurano come una forma di selezione classista.
Recentemente il governo ha presentato una riforma dello stato giuridico dei docenti universitari all’insegna della flessibilità e della precarietà; riforma che – come mostrano altri disegni di legge giacenti in parlamento – è sostanzialmente condivisa dall’opposizione4, la quale ha anche in questa materia idee non molto diverse da quelle degli attuali governanti. La precarizzazione dei docenti è stata considerata da molti un attacco alla democrazia, in quanto si prefigura come uno strumento politico utilizzabile per punire il dissenso. In questo senso, a parere di Gallino i docenti divenuti precari si troverebbero in una situazione simile a quella determinatasi nel 1931, quando i professori di allora furono chiamati a giurare fedeltà al fascismo.
Infine, come osserva Garofalo (2003: 2), in base alla legge 30 e al relativo decreto delegato, «l’università non promuoverà l’occupazione dei propri laureati attraverso la bontà della loro preparazione, ma [dovrà sviluppare] una vera e propria opera di mediazione nell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro». Insomma, in definitiva l’università diventerà una sorta di agenzia di servizi formativi e non, per le imprese (ibidem).
Tutto ciò è avvenuto in un contesto, come quello italiano, in cui i docenti universitari sono la metà di quelli francesi e tedeschi, in cui il personale tecnico-amministrativo è diminuito negli ultimi anni del 5% e in cui si spende per l’istruzione universitaria e la ricerca solo lo 0,8% del Pil contro l’1,2 dell’Unione europea. Per l’esiguità degli investimenti nell’educazione superiore e nella ricerca l’Italia si colloca in Europa prima della Grecia.
Dobbiamo aggiungere che queste misure sono state prese in un paese in cui il 90% della ricerca è fatto nelle università e negli enti pubblici di ricerca (anch’essi colpiti e ridimensionati) e in cui quasi non esiste un sistema di ricerca finanziato dai privati.
Questi dati così schematici ed essenziali farebbero pensare a un bollettino sindacale, ma se ci soffermiamo brevemente su di essi potremo ricostruire quella concezione dell’alta educazione che tanto piace alla Banca mondiale e agli interessi che essa rappresenta.
Come si può ricavare da questo quadro desolante, la nostra università – ma lo stesso processo riguarde le altre università meno americanizzate – esce snaturata dalle varie riforme, che nel corso degli anni ne hanno trasformato i diversi aspetti e le diverse funzioni. Scopo della tacita operazione, veicolata dalle varie «riforme», non è soltanto la sottomissione dell’insegnamento e della ricerca – la cui autonomia sarebbe ancora garantita dalla nostra Costituzione – agli interessi immediati dei poteri economici e/o degli stakeholders. Si tratta di una gigantesca operazione anche culturale e ideologica. Non solo si vuole creare un bacino mondiale di manopodera adeguato alle necessità cangianti del mercato e ai bisogni mutevoli delle imprese, si vuole anche farci credere che l’homo oeconomicus, che opera sempre esclusivamente per il suo vantaggio, sia l’unica scelta eticopolitica credibile e praticabile. In questa prospettiva, la conoscenza non è più un bene collettivo, cui ognuno di noi dà il suo contributo, e da cui spera possa scaturire una forma di vita sociale più benevola e più giusta per i più, ma un oggetto da vendere e in cui investire in nome del proprio interesse personale.
Come si diceva, questa è la prospettiva dell’individualismo asociale assoluto, che prefigura un mondo di monadi impazzite in conflitto e in competizione, per ottenere il massimo impiegando il minimo delle risorse disponibili. A prima vista esso può apparire allettante in quanto sembra stimolare la nostra «irriducibile individualità», ma è in realtà solo lo
strumento ideologico con il quale si giustificano i privilegi di alcuni, le disparità, le disuguaglianze collegate ai primi, e col quale si occulta la vera causa di tutto ciò.
Bibliografia
Arrighi G., Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Milano, il Saggiatore, 1996.
Associazione Treellle, Quaderno n. 3, Università italiana, università europea? Dati, proposte e questioni aperte, settembre 2003.
AA. VV. Manifeste pour une Université démocratique, gennaio 1998.
De Siqueira A.C., The New Economic Global Order and its Effects on Higher Education Policies, A Dissertation submitted to the Department of Educational Foundations and Policy Studies in partial fulfillment of the requirements for the degree of Doctor of Philosophy, The Florida State University, College of Education, Fall Semester 2001.
Gallino L., La logica dello spoils system e il giuramento dei professori, in La Repubblica, 17 gennaio 2002.
Garofalo M.G., La finanziaria 2004 sulla ricerca e sull’alta formazione, in Università Progetto, n. 5, 2003, pp. 12.
Geymonat L., Intreccio di temi eterogenei nel pensiero tedesco, in Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. IV, Milano, Garzanti, 1988.
Hobsbawm E. J., Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cambiamenti, Milano, Rizzoli, 1995.
Smith A., La ricchezza delle nazioni, vol. III, Roma, Newton Compton Editori, 1976 (ed. or. 1776).
Note
1) Ricordo che i presidenti della Banca mondiale sono sempre stati nordamericani.2) Nel Quaderno n. 3 dell’Associazione Treellle (2003) si legge che in Italia le tas se universitarie coprono meno del 15% dei costi, e che le università per legge non possono far pagare agli studenti più del 20% del Fondo di finanziamento ordinario, ricevuto dal Ministero. Inoltre, secondo la stessa fonte, a beneficiare della «quasi gra tuità» dell’università sono i ceti medi e medio-alti, mentre gli studenti di basso status socio-economico sono assai pochi in tutti i paesi dell’Ocse (Italia compresa) (2003: 50).
3) Così scrive Smith (1976: 95-96): «se invece della infarinatura di latino che viene impartita a volte ai ragazzi di ceto inferiore e che è difficile possa mai essere loro utile, venissero insegnate le nozioni elementari di geometria e di meccanica, l’istruzione didattica di questa categoria di persone sarebbe forse la più completa possibile. Non c’è quasi un mestiere comune che non offra qualche occasione di applicare i principi della geometria e della mecca nica, e che perciò non possa far esercitare e migliorare gradualmente la gente comune in quelle nozioni, che sono la introduzione necessaria alle scienze più sublimi e più utili».
4) Mi riferisco in particolare al disegno 1416 presentato nel maggio 2002. Tale disegno prevede il collocamento a riposo del docente che non supera la valutazione quadriennale obbligatoria.
(Scarica il pdf) "TRASFORMAZIONE DELL’UNIVERSITÀ E POLITICHE NEOLIBERISTE" di Alessandra Ciattini, da Critica Marxista 2004 n°1
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