lunedì 11 agosto 2014

TRASFORMAZIONE DELL’UNIVERSITÀ E POLITICHE NEOLIBERISTE di Alessandra Ciattini (a. 2004)


 



Alessandra Ciattini, Prof.ssa Antropologia religiosa
Un. La Sapienza, Roma

  "La politica della  Banca mondiale e il sistema della  educazione universitaria e della  ricerca. Per la concezione monetarista, l’educazione non è un diritto o un servizio, ma  un investimento delle famiglie. Le trasformazioni e i progetti di riforma dell’università italiana e la filosofia dell’«individuo asociale»."




Ringrazio Alessandra per aver risposto al mio invito di inviarmi un suo giudizio sulla situazione attuale della nostra università. Mi sembra molto importante ch'ella non  essere rimasta legata alla situazione degli ultimissimi anni, e di avere cercato le radici della crisi attuale nel lungo periodo e nella situazione geopolitica complessiva che si è ndata sviuppando. 
Mi auguro che altri colleghi vogliano intervenire con la massima libertà, secondo i loro interessi culturali. (F.P.)     

 TRASFORMAZIONE DELL’UNIVERSITÀ

E POLITICHE NEOLIBERISTE

Alessandra Ciattini

La politica della  Banca mondiale e il sistema della  educazione universitaria e della  ricerca. Per la concezione monetarista, l’educazione non è un diritto o un servizio, ma  un investimento delle famiglie. Le trasformazioni e i progetti di riforma dell’università italiana e la filosofia dell’«individuo asociale».


Per  affrontare in  breve una questione tanto complessa e ricca  di motivazioni e implicazioni come quella dell’attuale trasformazione della natura e della funzione dell’università a livello internazionale, prendo le mosse  da  un  presupposto teorico ampiamente  condiviso  dai  cultori delle  scienze sociali: le trasformazioni della forma e dell’organizzazione sociale complessiva generano cambiamenti più  o meno  profondi nelle  diverse sfere  e nelle  varie istituzioni che interagiscono in un  certo  contesto storico-sociale.
Se tale presupposto è ancora dotato di validità teorica, è chiaro che  la  campagna di stampa dedicata ai problemi dell’università italiana negli  ultimi anni, basata su affermazioni del genere: «I giovani  impiegano troppo tempo a laurearsi», o «I professori universi-
tari  insegnano in  maniera vecchia»,  è stata sollecitata da  altre motivazioni. Tali motivazioni e ragioni purtroppo non  appaiono sulla  grande stampa, che  pure si occupa  del  problema «università», e non compaiono neppure negli  articoli pubblicati da  illustri docenti
«addetti ai  lavori».  Mi  riferisco a quei  professori, di diverso orientamento politico,   che  seguono  da anni la questione universitaria, il processo «riformatore» in atto, e che in definitiva influiscono direttamente o indirettamente sulle scelte governative (quale che sia il governo in  carica) in  questa  complicata e delicata materia.
Rifacendomi al principio su enunciato, credo dunque che, se vogliamo capire cosa sta succedendo non  solo  nell’università italiana,  ma  anche in quella di tutti gli altri paesi che  non  possono sottrarsi alle  pressanti indicazioni della Banca mondiale, dobbiamo in primo luogo  chiederci, senza la pretesa di  essere esaustivi, quali sono  stati i cambiamenti  politicosociali  radicali ai quali abbiamo assistito impotenti negli ultimi decenni, tentando almeno di indicarli per  sommi capi.


L’attacco allo Stato sociale


Mi pare che i cambiamenti profondi  di  cui  dobbiamo tenere conto hanno per sfondo la grave crisi economica iniziata negli  anni settanta e riconosciuta da storici ed economisti di vario  orientamento (cfr., ad esempio, Hobsbawm, 1994: cap. XIV; Arrighi, 1996: 391423).  A tale crisi  economica dobbiamo  aggiungere un  altro evento di  straordinaria importanza rappresentato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’Est europeo ad essa legati. Tema questo di somma importanza, che però sembra essere stato rimosso,  giacché finora – mi pare – non  è stato affrontato in maniera approfondita dagli  studiosi che  si dichiarano ancora oggi marxisti e/o appartenenti  all’area della sinistra.
Ovviamente non posso soffermarmi sul  primo argomento, che del resto è oggetto di un ampio dibattito ancora in corso e che può essere trattato sicuramente in maniera più corretta ed esauriente da un economista. Per questa ragione mi limiterò a citare per sommi capi alcuni fatti, che  – non  solo a mio parere – fanno da sfondo  alla  questione «università» e ne  fanno un problema non solo italiano, ma mondiale.
Sostanzialmente si può affermare che  la  crisi  economica è iniziata negli  anni settanta, quando si concluse la cosiddetta età dell’oro del capitalismo, che era stata caratterizzata dalla sua espansione commerciale e produttiva. Il carattere di questa crisi  è rappresentato dalla presenza di capitali in eccesso,  che per produrre profitti debbono essere investiti nella speculazione finanziaria; profitti che  l’investimento nell’attività produttiva non  è più  in grado di garantire a causa della crisi di sovrapproduzione. Tale  crisi mondiale ha  dimezzato il ritmo di crescita del Pil, rendendo impossibile l’accumulazione; essa ha  inoltre inciso  sull’occupazione, determinando una sensibile diminuzione dei contributi versati allo Stato. A sua  volta  tale diminuzione ha determinato la messa in discussione  di tutta la  spesa sociale, ossia quell’insieme di servizi (il cosiddetto salario sociale) come l’educazione,  la sanità, le pensioni, le varie  forme  di  assistenza, ecc.,  che nei decenni precedenti lo Stato garantiva quali diritti ai suoi cittadini. Ciò ha anche provocato la limitazione degli  investimenti statali per  garantire il lavoro  alla  maggioranza della popolazione.
Abbiamo assistito  così  ad una battaglia tutta ideologica e difensiva di ben determinati interessi,  che  tutt’ora continua, benché già  se  ne  vedano gli esiti nefasti, contro il cosiddetto Welfare State, contro l’«immorale» e «improduttivo» assistenzialismo, contro l’«assurda pretesa» di avere un  lavoro stabile, contro tutte le politiche di sostegno  economico-sociale ai  lavoratori.
Come  si è già  detto, i poteri economici hanno tentato  di uscire da questa crisi,  intraprendendo la strada  della speculazione finanziaria, ma anche sviluppando il cosiddetto keynesismo militare (come le tragiche guerre di questi ultimi anni ci ricordano), e nello stesso tempo riuscendo a impadronirsi, nei  vari  paesi, di quelle società o istituzioni che fornivano servizi di pubblica utilità. Un’altra strategia è stata quella di  impadronirsi delle risorse materiali che prima lo Stato investiva nei servizi e che quindi tornavano ai cittadini come salario sociale. L’attacco allo  Stato sociale è stato reso  più agevole anche dal collasso dei paesi  socialisti dell’Est europeo, che ha  favorito ulteriormente  l’affermazione del  neoliberismo e la  distruzione dei diritti sociali.
Naturalmente il ritorno al liberalismo, il disfacimento dello Stato sociale e il processo di privatizzazione ad essi  connesso hanno riguardato anche il settore fondamentale dell’educazione, della formazione e della ricerca scientifica. Ciò è avvenuto in varie forme,  che cercherò di descrivere brevemente, e non ovviamente per ragioni puramente  economiche. Vi sono infatti anche ragioni squisitamente  politiche e – direi – anche filosofiche  e culturali, che strettamente si compenetrano con le prime. Infatti, la nuova fase  capitalistica (anche se non  originale) che stiamo vivendo richiede individui con una concezione del mondo, una cultura adeguata e funzionale ad essa. Credo  che il nucleo  di tale concezione, benché non sostanzialmente diverso rispetto al liberalismo  di Adam  Smith, sia  ben  individuato dall’espressione coniata da  Hobsbawm (1995:  28): «individualismo asociale assoluto».
Bisogna aggiungere che l’interesse per l’università e la ricerca anche in quei paesi come il nostro in cui avevano costituito quasi un  mondo  a parte –, mostrato in questi ultimi decenni dai poteri economici,  è dato  anche dal  fatto che la conoscenze e le innovazioni tecnologiche,  incamerate nei  prodotti, ne incrementano il valore, facendo lievitare anche i profitti.


Banca mondiale, università e ricerca


Prima di procedere a descrivere il processo di trasformazione subito dal  sistema  dell’educazione universitaria e  della ricerca, sarà bene ribadire che si tratta di un fenomeno mondiale, che sta riguardando le istituzioni universitarie sia del mondo  a capitalismo avanzato  sia  dei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Alla  base  di tale processo  di trasformazione sta la politica neoliberale (laissez faire, laissez aller)  portata avanti dalla Banca mondiale, la quale facendo leva  sullo  strumento dei  prestiti ha favorito certi cambiamenti giudicati opportuni dal punto di vista dei suoi  funzionari e intellettuali. Ovviamente la Banca mondiale – basterebbe citare i nomi  dei  suoi funzionari1 – rappresenta gli interessi dell’attuale capitalismo transnazionale, dominato dagli Stati Uniti, che  però  per  alcuni studiosi sarebbero già  entrati in crisi  e darebbero segni di indebolimento a vantaggio di altri centri capitalistici  (Arrighi,1996: 425466).
Ricavo  la  convinzione che  il processo di trasformazione dell’università sia un fenomeno mondiale da  una serie di  documenti provenienti da  vari  paesi (Belgio, Francia, Gran Bretagna, Brasile, ecc.), oltre che da un ottimo lavoro non pubblicato intitolato The  New Economic Global  Order and  its Effects on Higher Education Policies, scritto da  Angela C. De Siqueira, presentato come  dissertazione di dottorato all’Università dello  Stato della Florida (College of Education) nel 2001.  Questo materiale mostra – cosa a prima vista stupefacente – come le varie riforme che in questi ultimi anni hanno scolvolto l’università italiana siano descritte, sollecitate, utilizzando gli stessi principi, gli stessi slogan e le stesse considerazioni, da un  gruppo di intellettuali e specialisti, facenti capo  alla  Banca mondiale e avendo avuto come  laboratorio il Cile di Pinochet.
Fino agli anni sessanta l’Unesco, un’altra istituzione multilaterale, si è occupata in maniera particolare del problema educativo, avendo come punto di riferimento la Dichiarazione dei  diritti dell’uomo (1948),  e quindi muovendosi nella prospettiva  dell’educazione come diritto inalienabile. Per  quanto riguarda la  formazione e l’educazione, il ritorno al liberalismo comporta una nuova concezione di queste ultime. Come è noto, soprattutto nei paesi più influenzati dalle idee della  Rivoluzione francese e di  J. J. Rousseau, l’educazione in generale e quella universitaria in particolare erano considerate un diritto dell’uomo e del cittadino, che lo Stato doveva garantire. In questi paesi, soprattutto europei, veniva stabilita anche una stretta relazione tra educazione e democrazia, nel senso che il cittadino poteva esercitare pienamente i suoi diritti politici solo se avesse avuto la possibilità di educarsi, di conoscere la storia, il funzionamento della vita  sociale, ecc. Solo in questo modo poteva essere un agente politico consapevole, in grado di scegliere in maniera razionale e fondata.
Bisogna aggiungere, tuttavia, che molto  spesso – anche in Italia – questi principi non si concretavano in pratiche effettive ed efficaci  e restavano vuote parole. Ad esempio, in Europa solo uno scarso numero di giovani provenienti da famiglie operaie e contadine  arrivava a frequentare l‘università, nella quale si formavano e si formano invece  soprattutto i giovani appartenenti  alla  piccola e alla  media borghesia. E ciò perché  questi ultimi possono continuare a studiare senza aver bisogno di lavorare; ed inoltre hanno la  preparazione culturale necessaria, derivata loro dalla tradizione familiare2.


Due modelli


Alla  base  dell’università europea continentale sta un’altra idea  importante, elaborata da Wilhelm von Humboldt, secondo  la quale l’istituzione universitaria deve per sua  natura  essere autonoma dal potere politico  e per  questo trovare  risposta ai  problemi generali della società. Come Rousseau, tuttavia, egli era  convinto che lo Stato deve promuovere l’educazione e lo sviluppo morale dei cittadini, organizzando le scuole e le università, dove si insegna soprattutto ad apprendere (Geymonat, 1988:  2223). Per Humboldt, che fu ministro per l’istruzione e il culto  della Prussia e fondò l’università di Berlino, le istituzioni universitarie devono essere al servizio della nazione e per  questo non  possono essere strettamente legate alle  limitate  e contingenti esigenze di  una certa fase  storica e sociale. Esse devono  guardare al futuro della vita  sociale e nazionale, mirare al possibile, al cambiamento e, nello stesso tempo, a ciò che  resta valido nonostante la trasformazione storica. Egli sottolineava inoltre che nell’istituzione universitaria deve  esservi una stretta connessione tra didattica e ricerca. Senza le  innovazioni apportate dalla ricerca  non  può  darsi una didattica aperta ai cambiamenti, alla  critica dell’ordine esistente.
Bisogna segnalare, tuttavia, una sostanziale differenza tra le università ispirate al modello francese e tedesco e quelle invece sviluppatesi in Gran Bretagna e negli  Stati Uniti. Infatti, il modello anglosassone non prevede un forte  legame tra università e Stato, anche se da  quest’ultimo tutte le università, comprese quelle private, ricevono gran parte dei  loro finanziamenti. In questi paesi le università hanno sempre goduto di ampia autonomia, non  essendo sottoposte ad alcuna forma di controllo  ministeriale, ma nello stesso tempo hanno sempre subito l’influenza di quegli interessi privati che  le  hanno sovvenzionate. Pertanto ne consegue che questo tipo di  istituzione universitaria, non improntata ad un modello  generale e non istituita dallo  Stato, è apprezzata dai  teorici del neoliberalismo  e dai  fautori della trasformazione dell’università.
In  particolare, bisogna aggiungere che i poteri economici hanno sollecitato – anche da noi – la trasformazione dell’università e/o la  creazione di istituzioni terziarie non universitarie, al cui modello  la  prima dovrebbe ispirarsi. Queste ultime sono presenti in altri paesi in varie forme;  appaiono dotate di  una grande flessibilità; sono in grado di soddisfare i bisogni della società e dell’economia; e sono capaci di preparare i giovani alle  nuove  professioni tecniche, manageriali ecc. In queste ultime, la ricerca è assente o ha  un  ruolo secondario, i corsi sono brevi, vi sono  scarse attrezzature,  ma  garantiscono agli  organizzatori  consistenti profitti. È interessante notare che l’Associazione Treellle, di cui è presidente Umberto Agnelli, nella pubblicazione già menzionata, chiama i poteri economici con un  termine neutro, stakeholders (portatori di interessi), e attribuisce  loro  anche un  ruolo  nella  governance delle  università (2003: 12, 48). Inoltre, essa individua una serie di  nuove  missioni per  l’università, la quale oggi non  avrebbe più il monopolio della ricerca. Tali nuovi  compiti, dettati  dall’esigenza  di  trovare l’equilibrio tra  l’accrescimento disinteressato  della conoscenza e il suo  uso  a fini  pratici, riguardano la diffusione della cultura scientifica, la valorizzazione del territorio, ecc. Ma l’università sarebbe anche chiamata a far sorgere nuove  imprese, a favorire il trasferimento  tecnologico verso di esse,  imprese con le quali infine dovrebbe  stabilire   relazioni  di «parternariato» (2003: 19-20).
Possiamo dimostrare che  in alcuni paesi questo processo di trasformazione è già molto  avanzato. Ad esempio, in  Belgio  importanti esponenti delle  imprese capitalistiche siedono nei  consigli di amministrazione delle  università, indirizzandone la ricerca e l’insegnamento. È quanto ricaviamo da un  opuscolo  pubblicato nel  1998  a cura del Partito belga  del lavoro.
La presenza di più modelli universitari  (franco-tedesco e anglosassone) è molto  importante, anche perché le grandi potenze coloniali e neocoloniali hanno importato nei  loro domini diretti e indiretti il modello  metropolitano. Per questa ragione, ad  esempio, in Africa  le istituzioni universitarie sono  differenti a seconda del  paese: il modello  anglosassone è applicato nei  paesi ex-colonie della Gran Bretagna, quello  francese in quelli un  tempo dominati dalla Francia.
A questo punto penso risulti abbastanza chiaro che,  se  il radicale cambiamento prodottosi in questi ultimi decenni significa – come  si  è visto  – che  l’università deve rispondere con le sue attività di  ricerca e di  insegnamento alle esigenze immediate del  sistema economico vigente e dei suoi gruppi dominanti, ciò implica inevitabilmente l’alterazione della sua natura e lo snaturamento della sua  funzione, così come erano state definite in precedenza dalle correnti di  pensiero su  menzionate. Naturalmente ciò vale soprattutto per quei paesi che avevano adottato il modello  franco-tedesco di università.
Tale  snaturamento e tale alterazione si fondano in primo luogo sulla nuova concezione dell’educazione elaborata  dai  funzionari dalla Banca mondiale e rapidamente recepita dai governi dei paesi  sviluppati, ma  anche da  quelli che ancora ci ostiniamo a definire in  via  di  sviluppo. Si  tratta della cosiddetta «concezione  monetaristica»  dell’educazione, il cui background scientifico e culturale è costituito dalla riflessione degli  economisti della Scuola di Chicago (i «Chicago  Boys»),  tra quali ricordiamo i premi Nobel  Frederic Hayek e Milton Friedman.


Educazione come investimento


Secondo la concezione monetaristica l’educazione non  deve  esser più né un diritto né un servizio garantito dallo  Stato, ma un investimento fatto dallo  studente e dalla sua  famiglia, che darà i suoi frutti nel  futuro, quando il titolo  di studio  «acquistato» sarà  speso   sul mercato del lavoro, garantendo al giovane un  lavoro  remunerato in proporzione al  denaro investito e alla  quantità di cognizioni acquisite. Come  ho già anticipato, tale concezione era  già  presente nella riflessione di Adam  Smith, il quale sosteneva che l’educazione deve essere pratica ed  utile ed  inoltre deve essere diversa a seconda della collocazione sociale degli individui.  A suo  parere, infatti, i poveri devono  poter usufruire solo  della formazione elementare a basso costo, che avvia a un mestiere («professionalizzante», si dice oggi), e devono  anche apprendere a obbedire  ai loro superiori3. Infatti, l’economista scozzese scrive che lo Stato trae vantaggio dall’istruzione  dei  ceti  inferiori, giacché «una popolazione istruita e intelligente è sempre più  educata ed ordinata di  una ignorante e stupida». Egli aggiunge, sempre riferendosi agli appartenenti alle  classi popolari: «Si sentiranno,  ognuno singolarmente, più  rispettabile, più  degno della stima dei superiori, e saranno quindi più  disposti a rispettarli» (1976: 98).
Si potrebbe dire  che la trasformazione dell’educazione in investimento, alimentata  da  tutto uno  strumentario ideologico  che ben  conosciamo anche in Italia (il sistema dei crediti, i prestiti d’onore  agli  studenti, il laureato  come prodotto finito), è stata  un’operazione  il cui obiettivo primario era quello  di diminuire i costi dell’istituzione universitaria,  addossandoli in massima parte agli studenti e ai  lavoratori dell’università. Questi costi comprendono sia quelli relativi all’istruzione vera e propria, sia  quelli ad  essa collegati come i costi per  il trasporto, per l’acquisto dei  libri  di testo, per  le abitazioni degli  studenti che  non vivono  in famiglia. Infatti, sin  dagli  anni settanta la  Banca mondiale auspica la riduzione dei costi del  processo educativo, nella prospettiva del ridimensionamento dello  Stato sociale e della riduzio-
ne dei servizi da esso prima garantiti, ora  in  larga parte erogati da privati e trasformati in merci da acquistare sul  mercato.
Nel 1978 un gruppo di studiosi della Banca mondiale ha prodotto  una serie di  studi sul  tema dell’educazione, in cui viene  applicato il paradigma monetarista sopra  illustrato. In  questi scritti si applica al processo formativo, alle istituzioni scolastiche e universitarie il criterio del rapporto tra costi e benefici. Facendo riferimento a questo criterio si afferma che gli studenti possono raggiungere una buona preparazione, utilizzando un  numero maggiore di  libri, anche se non  viene  aumentato il numero  dei loro insegnanti e/o migliorata la  loro  qualità. Analogamente in  questi scritti si  fa  presente che il numero ridotto di studenti per  classe non  migliora l’apprendimento. Inoltre, si  afferma che  è opportuno sottoporre gli insegnanti all’addestramento piuttosto  che sviluppare e approfondire  le loro  conoscenze e la  loro  capacità di insegnare. La parola addestramento (training) sta a indicare l’acquisizione di un metodo standardizzato di insegnamento, che del resto si coniuga con l’introduzione del  criterio dell’efficienza nel processo educativo. Quest’ultimo può esser così formulato: ottenere il massimo risultato (output), col minimo possibile di risorse impiegate (input) (De Siqueira, 2001: 198-199).
Il criterio dell’efficienza può essere applicato a vari  aspetti del processo educativo. Ad  esempio, può  essere misurata la  «produttività» didattica e scientifica del docente – sempre secondo  criteri quantitativi –, oppure si può tenere  conto  della «produttività» delle singole università,  tagliando ad esempio (come  è avvenuto in  Italia) i fondi a quegli atenei che avevano troppi studenti fuori corso. In definita, si  può  affermare che  la «produttività» di un ateneo sta nel numero degli studenti che riesce a far  laureare, i quali sarebbero i suoi «prodotti finiti».
Un  documento molto  importante a questo proposito è lo studio di George  Psacharopoulos del 1980,  ampiamente illustrato da Angela De Siqueira nella sua  dissertazione (2001: 205-207). Psacharopooulos è un  economista formatosi all’Università di Chicago e seguace dell’approccio monetarista, che applica il criterio costi/benefici al processo educativo. Nonostante ciò, nel  suo  studio, descritto  dalla De  Siqueira, risalente al 1980, egli riconosce che è assai difficile  misurare in  termini quantitativi o addiritura monetarizzare i risultati del  processo educativo. Egli  si rende cioè conto  delle  difficoltà  che incontra chiunque voglia valutare in  termini quantitativi qualcosa la cui natura è essenzialmente qualitativa. Ma la consapevolezza di tali  difficoltà non fanno abbandonare a  Psacharopoulos il criterio costo/benefici. Infatti  egli scrive che gli investimenti nell’istruzione e nella formazione debbono tenere conto  del  budget che hanno a disposizione i governi, senza tenere conto  del fatto che la consistenza di quest’ultimo è determinata dalle scelte politico-sociali  nelle  quali si esprimono certi orientamenti e certi interessi. Basti pensare alla  politica di riduzione  delle  tasse fatta a  vantaggio delle  classi alte nei  paesi capitalistici  avanzati; riduzione che  ha spinto qualcuno ad  asserire giustamente che veniva abbandonato il criterio democratico e redistributivo della progressività nella tassazione.
La limitazione del budget viene  usata per  giustificare la  riduzione degli  investimenti statali nelle  scuole  e nelle  università, per favorire lo sviluppo di analoghe istituzioni private e per  trasferire questi costi agli studenti e alle loro famiglie. Mi limito a ricordare che il già citato Quaderno 3 dell’Associazione Treellle propone un  aumento della contribuzione studentesca al funzionamento dell’università (cosa  che  sta tentando di fare anche Blair). Ciò è del tutto in sintonia con quanto precedentemente affermato dagli  autori del Quaderno, i quali appunto scrivono: «l’istruzione universitaria, che assicura un servizio pubblico, deve rimanere  impegno primario dello Stato, ma rappresenta anche un investimento individuale (proporzionale  all’impegno profuso) per i notevoli vantaggi personali che ne derivano (status, occupazione, reddito)» (2003: 51; corsivo  mio).
Secondo la  Banca mondiale, un altro fattore importante, su cui intervenire per  ridurre i costi dell’istruzione, è rappresentato dal  fatto che  in  generale gli insegnanti hanno sempre avuto un posto di lavoro  stabile e un salario mensile fisso. Nella nuova università ciò non è più possibile, bisogna quindi introdurre la precarietà e/o collegare il salario alla  produttività   del   docente.  Quest’ultima sarà misurabile utilizzando metodologie  di insegnamento e testi standardizzati, che consentiranno di  valutare la  performance dello studente. Inoltre, come  mostra  lo sviluppo delle  cosiddette università telematiche, nelle  quali di fatto non  si fa nessuna attività di ricerca, gli insegnanti possono essere  sostituiti da  mezzi  audiovisivi (De Siqueira, 2001: 207-210).
Quanto ai paesi del Terzo mondo, la Banca mondiale suggerisce  in generale di limitare gli investimenti all’istruzione elementare e di pagare i debiti contratti con  le  grandi banche occidentali. Non  posso  soffermarmi nel  dettaglio sui  cambiamenti introdotti nelle   università  del  Cile,   della Cina e del Brasile, ampiamente descritti dalla De Siqueira, ma che si ispirano alla  logica qui ricostruita.


La trasformazione dell’università italiana


Una descrizione molto  sintetica del  processo «riformatore» che  ha riguardato negli  ultimi anni l’università italiana  potrebbe essere questa: nel  1989  è  stata varata l’autonomia statutaria dell’università, che ha  di fatto significato un primo passo verso la disgregazione del sistema universitario pubblico; nel  1993  si è imposta l’autonomia finanziaria, che ha determinato la progressiva riduzione dei finanziamenti agli  atenei. La  legge  finanziaria del 1994  ha  introdotto il cosiddetto finanziamento a  budget, che ha per così dire cristallizzato la consistenza delle  risorse che lo Stato dà  alle  università, non  tenendo conto del suo sviluppo futuro  in  termini di  didattica e di  ricerca. Successivamente, nel  1997, è stata fatta la riforma dei concorsi, che si è trasformata in una forma  mascherata di  ope legis  per  i candidati locali,  denunciata da molti  illustri docenti, i quali ora auspicano il ritorno al concorso nazionale. Più  recentemente è stata introdotta la cosiddetta riforma didattica (il 3+2, per  intenderci, che l’attuale governo vorrebbe modificare),  che ha  sancito la differenza tra la laurea breve professionalizzante (meno  costosa) e la  laurea specialistica, che dovrebbe avviare alla ricerca, alla docenza e alle funzioni  direttive. Il  3+2  ha  comportato l’introduzione del sistema dei crediti di  origine statunitense, la cui utilità starebbe nel rendere leggibili e comparabili i titoli di studio conseguiti, facilitando così la  mobilità lavorativa degli  studenti. Inoltre, successivamente, per  ridurre i costi del personale tecnico amministrativo, è stato liberalizzato  il ricorso ai contratti a tempo determinato e l’impiego dei lavoratori  interinali, che possono costituire fino  al  20%  dell’organico in servizio negli  atenei.
A tutto ciò si aggiunga che le leggi  finanziarie degli  ultimi anni hanno previsto la  trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato (auspicando l’arrivo di investimenti privati in  sostituzione  di quelli pubblici via  via  assottigliatisi, e forme  di esternalizzazione dei  servizi) e hanno  bloccato  sia  le assunzioni dei  docenti che del personale tecnico-amministrativo. Nello  stesso tempo si  è colpito il diritto allo studio, cancellando ad esempio il presalario, chiudendo le case  per  gli studenti e introducendo i cosiddetti prestiti d’onore e un sistema premiale di sostegno allo  studio, che  si  configurano come una forma di selezione classista.
Recentemente il governo ha presentato una riforma dello stato giuridico dei docenti universitari all’insegna della flessibilità e della precarietà; riforma che – come mostrano altri disegni di  legge  giacenti in parlamento – è sostanzialmente condivisa dall’opposizione4, la quale ha  anche in questa materia idee non molto diverse da quelle degli attuali governanti. La precarizzazione dei docenti è stata considerata da  molti  un  attacco alla  democrazia, in quanto si prefigura come uno  strumento politico utilizzabile per punire il dissenso.  In  questo senso, a  parere di Gallino i docenti divenuti precari si  troverebbero in  una situazione simile a  quella determinatasi nel 1931,  quando i professori di allora furono chiamati a giurare fedeltà al fascismo.
Infine, come osserva Garofalo (2003: 2), in base  alla  legge 30 e al relativo decreto delegato, «l’università non  promuoverà  l’occupazione  dei propri laureati attraverso la bontà della loro preparazione, ma  [dovrà sviluppare] una vera e propria opera di mediazione nell’incontro tra  domanda ed  offerta di lavoro».  Insomma, in definitiva l’università diventerà una sorta di agenzia di servizi formativi e non,  per  le imprese (ibidem).
Tutto ciò è avvenuto in un contesto, come  quello  italiano, in cui  i docenti universitari  sono  la metà di quelli francesi e tedeschi, in cui il personale tecnico-amministrativo è diminuito negli  ultimi anni del 5% e in cui si spende per l’istruzione universitaria  e la  ricerca  solo  lo 0,8%  del  Pil  contro l’1,2 dell’Unione europea. Per l’esiguità degli  investimenti  nell’educazione superiore  e nella ricerca l’Italia si colloca  in Europa prima della Grecia.
Dobbiamo aggiungere che queste misure sono  state prese in un  paese in cui il 90% della ricerca è fatto nelle  università e negli enti pubblici di  ricerca (anch’essi colpiti  e ridimensionati) e in cui quasi non  esiste un  sistema di ricerca  finanziato dai privati.
Questi dati così  schematici ed essenziali farebbero pensare a un  bollettino sindacale, ma  se  ci soffermiamo brevemente su di essi potremo ricostruire quella concezione dell’alta educazione che tanto piace alla  Banca mondiale e agli interessi che essa rappresenta.
Come si può ricavare da questo quadro desolante, la nostra università – ma  lo stesso processo riguarde le altre università meno americanizzate – esce snaturata dalle varie riforme, che  nel  corso degli  anni ne hanno trasformato i diversi aspetti e le diverse funzioni.  Scopo  della tacita operazione, veicolata dalle varie «riforme», non è soltanto la sottomissione dell’insegnamento e della ricerca – la cui autonomia sarebbe ancora garantita  dalla nostra Costituzione – agli  interessi immediati dei poteri economici e/o degli stakeholders. Si tratta di una gigantesca operazione  anche culturale e ideologica. Non solo si vuole creare un bacino mondiale di manopodera adeguato alle necessità cangianti del mercato e ai  bisogni mutevoli delle  imprese, si vuole  anche farci  credere che l’homo oeconomicus, che opera sempre esclusivamente per  il suo vantaggio, sia  l’unica  scelta eticopolitica credibile e praticabile. In questa prospettiva, la  conoscenza non è più un bene  collettivo, cui ognuno di noi dà il suo contributo, e da cui spera possa scaturire una forma di vita  sociale più  benevola e più  giusta per  i più,  ma  un  oggetto  da vendere e in cui investire in nome  del proprio interesse personale.
Come  si  diceva, questa è la prospettiva dell’individualismo asociale assoluto, che prefigura un mondo di monadi impazzite in conflitto  e in  competizione, per  ottenere il massimo impiegando il minimo  delle  risorse disponibili. A prima vista esso  può  apparire allettante in  quanto sembra stimolare la  nostra «irriducibile individualità», ma  è  in  realtà solo  lo
strumento ideologico con il quale si giustificano i privilegi di alcuni, le disparità, le disuguaglianze  collegate ai primi, e col quale si occulta la vera causa di tutto ciò.

Bibliografia


Arrighi G., Il lungo  XX  secolo. Denaro,  potere e le origini del nostro  tempo, Milano, il Saggiatore, 1996.
Associazione Treellle, Quaderno n. 3, Università italiana, università europea? Dati,  proposte e questioni aperte, settembre 2003.
AA. VV. Manifeste pour une Université  démocratique, gennaio 1998.
De Siqueira A.C., The  New  Economic Global Order and its Effects on Higher Education Policies,  A Dissertation  submitted to  the  Department of Educational Foundations and  Policy Studies in partial fulfillment of the requirements for the  degree of Doctor  of Philosophy, The Florida State University,  College  of Education, Fall  Semester 2001.
Gallino L., La logica dello spoils system  e il giuramento dei professori, in La Repubblica, 17 gennaio 2002.
Garofalo M.G., La finanziaria 2004 sulla ricerca  e sull’alta formazione, in Università Progetto, n. 5, 2003,  pp. 12.
Geymonat L., Intreccio di temi  eterogenei  nel pensiero tedesco,  in Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. IV, Milano, Garzanti, 1988.
Hobsbawm E. J., Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cambiamenti, Milano, Rizzoli,  1995.
Smith A., La ricchezza delle  nazioni, vol. III,  Roma,  Newton Compton Editori, 1976 (ed. or. 1776).

Note

1) Ricordo  che i presidenti della Banca mondiale sono sempre stati nordamericani.
2) Nel  Quaderno n. 3 dell’Associazione Treellle (2003)  si legge che in Italia le tas se universitarie coprono  meno  del 15% dei costi, e che le università per legge non possono  far  pagare agli  studenti più  del  20% del Fondo  di finanziamento ordinario, ricevuto dal Ministero. Inoltre, secondo  la stessa  fonte,  a  beneficiare della  «quasi gra tuità» dell’università sono i ceti medi  e medio-alti, mentre gli studenti di basso status socio-economico sono  assai pochi  in  tutti i paesi dell’Ocse (Italia compresa) (2003: 50).
3) Così  scrive Smith (1976:  95-96): «se invece  della infarinatura di latino che viene impartita a volte  ai ragazzi di ceto inferiore e che è difficile  possa mai  essere loro utile, venissero  insegnate le  nozioni elementari  di   geometria  e  di   meccanica, l’istruzione didattica di questa categoria di persone sarebbe forse  la più  completa possibile. Non  c’è quasi un  mestiere  comune che non offra qualche occasione di applicare i principi della geometria e della mecca nica,  e che perciò  non possa far esercitare e migliorare gradualmente la gente comune in quelle nozioni, che sono la introduzione necessaria alle  scienze più  sublimi e  più  utili».
4) Mi riferisco in particolare al disegno 1416  presentato nel  maggio 2002.  Tale  disegno  prevede il collocamento a riposo  del docente che non supera la valutazione quadriennale obbligatoria.

(Scarica il pdf) "TRASFORMAZIONE DELL’UNIVERSITÀ E POLITICHE NEOLIBERISTE" di Alessandra Ciattini, da Critica Marxista 2004 n°1

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